Nuovo disco per un trio che cerca di trovare il punto d’equilibrio tra le sonorità del jazz-rock sperimentale degli anni settanta (si prenda ad esempio “Spectrum” di Billy Cobham, per dare l’idea), ove la chitarra e sostituita dalla capacità creativa e inventiva di Madeski, vera anima del trio e maestoso all’Hammond, e le più moderne concezioni del divagare sonico.
Se non fosse troppo banale lo si potrebbe define come un “vecchio disco nuovo”, oppure, se preferite, un “nuovo disco vecchio”. Ma attenzione: non sa di vecchio! All’opposto è un’ ottima produzione, con soluzioni intelligenti e accattivanti.
Passiamo in rassegna qualche brano:
- “Nocturnal transmission”: un tempo continuo e uniforme, una linea di basso con pochi fronzoli, noise di tastiere e scale minori per una brano insolito. Cambio di ritmo senza soluzione di continuità con passaggio ad un rullante molto secco d’impronta funky. Proseguono gli svarioni di tastiera intervallati da interessanti e violente interruzioni del ritmo (soluzione quasi abusata nell’intero album). Finale con giochi di rullante in cui Martin si diverte a disegnare incastri. Colpisce uno scarno uso dei piatti. La batteria sfuma e rimane uno stridulo pianto di tastiere.
- “Take me nowhere”: drum-set secco e compatto e contrabbasso che lega il divagare delle tastiere e la piacevole monotonia del ritmo. Alcune percussioni. Suoni dalla giungla terminano l’incedere del pezzo.
- “Pappy check”: sound early-dance da film di Quentin Tarantino. Un DJ gioca con un efficace scratch, anacronistico rispetto al souno ricreato, ma ben incastrato nel contesto musicale.
- “First time long time” è per me il miglior brano del disco. Rievoca le sonorità del grandissimo “Tribute to Jack Johnson” di Miles Davis: Medeski fa l’Herbie Hancock e Martin fa il Billy Cobham della situazione, il risultato è un accattivante miscela di odori e colori.
- “Where have you been”: sapiente equalizzazione per un pezzo con caratteristiche molto “urbane”.
- "Your name is Snake Anthony" è un tappeto musicale intrecciato per ospitare la recitazione di un testo da parte di una voce greve e sicura.
- “Off the table”: l’organo a canne ci introduce in uno scenario terribile in cui si miscelano grida di terrore e suoni desolanti, mentre alcune scale minori armoniche aumentano la tensione interna del brano. Non pensate al sangue, pensate piuttosto alla nebbia e al fumo. Poi tutto diviene più morbido.
Nel mio piccolo non ho timore a consigliarvi l’acquisto di questo piccolo gioiellino, soprattutto se siete affezionati al suono di band come la Mahavishnu Orchestra ma contemporaneamente non volete rinunciare alle nuove soluzioni della strumentazione moderna. È difficile spiegarvi come il trio abbia potuto miscelare sapientemente generi così diversi tra loro, non vi resta che ascoltarlo.
Un disco lungo, complesso e raffinato adatto sia all’ascoltatore più evoluto che al neofita del settore. Eterogeneo.
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