L'educazione sentimentale di Madame du Barry/Parte 1

Quando varcai la soglia del Palasport di Firenze, il 24 settembre 1990, avevo 17 anni ed ero un'adolescente piuttosto conformista, che aveva idee ancora molto vaghe su cosa fosse il rock.
Ero cresciuta con musicassette marca "La voce del padrone" trovate in casa, che contenevano dischi di Guccini, De Andrè, De Gregori e Battisti.
Gente di moda conosciuta al liceo mi aveva portato ad ascoltare Spandau Ballet e Antonello Venditti, che cercavo disperatamente di amare per essere in qualche modo accolta.

Poi, la svolta.
Entrai nelle grazie di un giovin metallaro abbastanza piacente. Per descrivere il tipo: alto, magro, capelli lunghi fino alle spalle, giubbotto di jeans con una stampa degli Helloween.
Fumava sigarette e beveva birra quando ancora, per me, era trasgressione una Coca Cola con le amiche.
Mi regalò una cassettina con le classiche canzoni metal-sentimentali adatte a fare colpo su una donzella: "Still loving you" degli Scorpions, "I was made for lovin'you" dei Kiss...
Il messaggio era chiaro, già dai titoli, ma io non ero granchè intuitiva.
Mi sentivo lusingata, questo sì, e il fanciullo mi stava assai simpatico.
Così, il giorno del mio compleanno, il metallaro in erba mi regalò, timoroso, il biglietto di un concerto.
L'intestazione dichiarava, arrogante: "Clash of the Titans". I nomi dei gruppi erano aggressivi ma non mi dicevano granchè: Suicidal Tendencies, Testament, Megadeth, Slayer.
Curiosa di nuovi suoni, inconsciamente stanca di cantautori e pop star, accettai.

Il palazzetto era popolato di creature mai viste prima, agghindate con borchie e scarponcini militari, ma non mi posi alcun problema: al mio fianco, a proteggermi, c'era lui, il giovane rocker dai lunghi capelli. Finimmo nelle retrovie, circondati da vapori di sigarette e altre sostanze speziate.
Tutto cominciò.
I Suicidal Tendencies li ricordo ben poco, a lui non interessavano, così fecero da sottofondo al suo descrivermi il magico mondo dell'heavy metal.
Ricordo solo un volume allucinante, che non credevo umanamente possibile.
Per il secondo gruppo, i Testament, ci dirigemmo in un luogo più prossimo al palco, dalle parti del mixer.
Il lungocrinito cavaliere che mi aveva accompagnato si limitò a dirmi: "ci vediamo dopo", e sparì.
In preda a un adolescenziale senso di abbandono, mi consolai ascoltando. Colui che scoprii in seguito chiamarsi Chuck Billy era un colossale indiano che ruggiva e sputava in aria per poi (bleah) raccogliere al volo il suo proprio scaracchio.
Pur schifata, constatai che il muro di suono mi travolgeva, che questi Testament sembravano incarnare colossi di Rodi e mura di Gerico, terremoti e onde di marea.
"Into the pit" e "Disciples of the watch" esplosero nel mio cervello come uno tsunami, anche se ancora non ne conoscevo il titolo. Spettinata da una parete di batterie e chitarre, scoprii che la faccenda cominciava a piacermi.
Mi piaceva assai meno il mio cavaliere, che tornò ammaccato, sudato e goffo dal delirio di balli delle prime file con il segno visibile di un anfibio tatuato sulla schiena.
Mi guardò con aria da cocker e abbozzò un sorriso sciocco che rimase a mezz'aria tra di noi.

Nella pausa tra il concerto dei Testament e quello che seguiva, ci avvicinammo non poco al palco.
Colui che ormai cominciavo a ritenere un perfetto idiota mi sussurrò: "Attenta al pogo".
"Che cazzo è un pogo?" pensai, senza avere il coraggio di chiederglielo. La parola suonava strana, mi richiamava alla mente balli rituali o animali estinti da secoli.
Poi apparvero i Megadeth, con alle spalle un muro di casse marchiate con il simbolo della radioattività.
In quel momento, fu inevitabile scoprire la triste realtà della parola "Pogo".
Mi ritrovai sparata a una ventina di metri dal palco da un nerboruto e sudato individuo urlante, mentre io stessa gridavo "sono una donnaaaaaaa!" sperando vanamente di impietosirlo.
Provai anche con "Ho gli occhialiiiiii", ma non ottenni alcun risultato apprezzabile.
Divenni una pallina da flipper per qualche minuto mentre Dave Mustaine ringhiava e la sua band sparava bordate di riff a una velocità inconcepibile.
Riuscii a guadagnare una postazione sicura e, senza più veder traccia del mio cavaliere, mi godetti il concerto di una delle più grandi band della storia nel suo momento migliore: i Megadeth di "Rust in peace". Non ne sapevo niente, in quel momento, ma la viscida, psicotica potenza di quei brani si incise dentro di me. Tutto finì con una versione devastata di "Anarchy in the UK", vedevo corpi volare come frisbee agli angoli del palco, ma ero finalmente al sicuro.
Dopo qualche minuto di silenzio, si riaccesero le luci.

L'ultima band doveva salire sul palco. Gli Slayer.
Li avevo sentiti nominare, a scuola. Un nome che veniva scritto sui diari degli studenti più trasgressivi e pronunciato a voce bassa, con una sorta di timore reverenziale.
Un roadie si avvicinò a una chitarra e provò una nota.
Il suono che ne uscì mi fece capire che fino a quel momento avevamo scherzato.
Un volume apocalittico, un suono da tirannosauro inferocito.
Pensai solo: "Ok, io me ne vado", ma rimasi ferma, come paralizzata, in attesa.
Giù le luci.
Non avevo mai sentito niente di simile.
Araya, Hanneman e King apparvero su uno sfondo di striscioni paranazisti con aquile stilizzate.
Seri, truci, patibolari.
Nessun saluto, nessun sorriso.
Cominciarono con una salva di mortaio che riconobbi in seguito: "War ensenble".
Le luci erano rosse, furenti. Loro, delle ombre solenni.
"Mandatory suicide" mi travolse, costringendomi a scuotere la testa inebriata, anche se ero vestita in jeans e maglietta bianca, anche se ero magra e fragile in mezzo a tanti metallari enormi.
"Angel of death", "Post mortem", "Raining blood" fecero a brandelli quello che ero stata fino a quel giorno. Solo alla fine del concerto ritrovai il mio amichetto, fradicio di sudore e inebriato di gioia e birra. Ci provò pochi minuti dopo, ma era bagnato dagli umori di troppi esseri umani e non mi ispirava alcuna pulsione erotica. Ne rifiutai le avances, ma lo ringraziai per avermi fatto scoprire quel mondo travolgente. Non sembrò apprezzare più di tanto i miei ringraziamenti.
Realizzai solo in seguito, da totale ingenua com'ero all'epoca, che avrebbe preferito un grazie di tutt'altro genere.
Quella notte, tornai nella mia cameretta adorna di poster di popstar e cantautori e li strappai via, uno dopo l'altro, dalla parete.

Da quel giorno non ho mai più ascoltato Antonello Venditti.

Carico i commenti...  con calma