Ma che bello l'ultimo album dei Meganoidi! Un concentrato potente e di ampio respiro di sonorità elettriche e atmosfere cupe. La band di Genova è arrivata al quarto elle-pi percorrendo strade insolite e per certi versi "controcorrente" rispetto a iter prestabiliti. Sono passati un bel po' di anni dai video accattivanti e ruffiani che li imposero come nuovo fenomeno di MTV. Chi non ricorda quei ritmi ska così irriverenti e conditi da testi politically uncorrect ("Supereroi contro la municipale", "Meganoidi"), o quei video ironici e coloriti pensati apposta per adescare giovani sinistroidi? Ma il tempo passa, e per fortuna si cresce (se non si invecchia prima..) e per i Meganoidi, riusciti abilmente a farsi conoscere dal grande pubblico, è stato tempo di cambiare.

Strade insolite dicevamo, quelle che portano dalla fama istantanea e commerciale a scelte più ponderate e indipendenti. La cosa era già chiara dai toni e dal titolo del secondo album "Outside the Loop, Stupendo Sensation": lo ska e i ritornelli allegri, così come la pubblicità e l'heavy rotation, vengono progressivamente messi da parte in favore di un rock più sperimentale e significativo. Se il risultato erano hit come "Zeta Reticoli" (a mio avviso la più bella canzone rock in italiano degli ultimi anni) allora ben venga il nuovo corso.

"Al Posto del Fuoco", uscito lo scorso aprile per la Green Fog Records, consta di dodici tracce dirette come un pugno in pieno viso: l'opener "Altrove" attacca senza dare il tempo di ambientarsi. Le ritmiche sincopate e gli arpeggi di chitarra in questo brano mi ricordano un po' i primi Mars Volta, ma è un'impressione personale. Segue l'hard-blues di "Aneta", primo singolo. Il testo è molto d'effetto ("Se ti ostini ad aprire la mente/il tuo cervello potrebbe fuoriuscire fuori.."), con richiami surreali che sono d'altronde presenti nelle liriche dell'intero disco. "Dune" è l'elogio della lentezza; col suo incedere pesante e ipnotico è un po' difficile da digerire a primo ascolto, ma poi ti cresce addosso.

Uno sprazzo dei tempi che furono si ha con "Scusa Las Vegas", la mia traccia preferita. E' una cavalcata dai toni leggermente malinconici sostenuta da arpeggi veloci e il ritornello in inglese, tanto caro ai nostri ("Voices calling from the sea/they pretend to know what I need/Voices calling from the sea/Scusami Las Vegas resto qui.."). "Mia" è il secondo singolo, e coi suoi richiami sixties è l'unico episodio chiaramente radio friendly del lotto.

Da menzionare anche "Fino alla fine", che parte come una power ballad per fare marcia indietro e tirare fuori una strofa parlata alla Linea 77. La riporta in quota lo struggente assolo di tromba (toh.. chi c'é!..) tra i ruggiti distorti delle chitarre. "Your Desire" è la cugina piccola di "Zeta Reticoli", tanto la ricorda negli arrangiamenti e nella struttura.

A chiudere le danze la title track, che nella sua esplosività mi ricorda i Faith No More di "King for a Day.." ed è comunque molto pattoniana anche nel trionfo disarmonico del finale in cui tamburi picchianti, fiati e chitarre si danno battaglia.

Una volta ascoltato, per quanto non di presa immediata, è uno di quei dischi che ti portano a spingere nuovamente play, e a ringraziare di cuore la gente che una volta arrivata al successo sa veramente percorrere altre strade.

Magari meno visibili ma di certo più soddisfacenti.

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