A un certo punto ho pensato che Mel Gibson avesse fatto un salto in avanti, a livello filosofico, o meglio ideologico. Poi è arrivata la sequenza finale e le cose sono tornate al loro posto: la visione orrorosa e priva di trionfalismi della guerra ha lasciato posto a una chiusa un po’ troppo patriottica e questa volta trionfante. Il bene compiuto da Desmond Doss si è andato a ricomporre come un tassello del grande mosaico, niente di più, della forza soverchiante americana. Come a dire: «Noi americani avevamo nell’esercito anche quello che ha salvato 70 commilitoni, quanto siamo ganzi». Vedendo poi le interviste alle persone reali nel finale si comprende che non c’è una vera messa in discussione della guerra; la guerra è elemento essenziale della visione americana, per cui il bene compiuto da Doss rappresenta solo una funzione tra le tante, un’impresa in fondo anch’essa di forza e tenacia, ma asservite alla difesa piuttosto che all’offesa.
Nei momenti migliori del film tuttavia, si poteva cogliere una certa problematicità nella rappresentazione del conflitto bellico. Le due sequenze di guerra sono magistrali, molto complesse registicamente ma strutturate in modo da non risultare caotiche. Lo sguardo cinematografico entra proprio nelle viscere della guerra, ce la fa assaporare in tutta la sua asprezza e crudeltà. E allora prima che si scateni il conflitto, vediamo i giovani soldati osservare i cadaveri rimasti sul terreno: dilaniati, putrescenti, mangiati dai topi. È un inizio shock che dà una colorazione horror molto forte alla guerra, che si mantiene poi abbastanza costante per tutto il segmento narrativo. Gibson è spietato nel mostrarci tutto l’orrore, i corpi maciullati, le notti da incubo, lo svilimento della figura umana. Siamo di fronte a un lavoro maiuscolo, che può competere con i grandi film di guerra del passato.
A maggior ragione, stona il resto. Dal finale strombazzato, che repentinamente dimentica l’orrore e rimette in primo piano la vittoria americana; alla costruzione delle premesse alla guerra. L’addestramento di Doss e compagni è troppo debitore di Full Metal Jacket e inoltre non svolge perfettamente le sue funzioni. Penso alla definizione dei caratteri dei personaggi: alcuni sono buoni, come il Sergente interpretato da Vince Vaughn (davvero molto bene) che alterna rigore e umanità, ma molti altri sono abbozzati e mal gestiti, come il Capitano Glover, introdotto male e portato avanti senza mai chiarirne la figura. I commilitoni sono delle maschere, ovvio, non si poteva chiedere a Gibson di approfondirli tutti. Ma almeno il bullo, quello che ovviamente parte stronzo e poi cambia, almeno lui poteva essere ritratto in modo meno retorico. È invece una funzione narrativa senza caratterizzazione originale. Meglio allora la moglie di Doss, che resta comunque tutt’altro che indimenticabile.
Anche lo stesso protagonista non è proprio un esempio fulgido di scrittura di un personaggio. È un ragazzo molto strano, particolare, ma non così profondo e interessante come potrebbe sembrare. Alla fine è un sempliciotto, un campagnolo che si fissa sull’aiutare invece che sullo sparare, ma non ripudia in pieno la guerra. Anzi, ne è ossessionato come tutti. Quindi la sua vicenda non è poi nemmeno così significativa. Resta un’impresa, una prova di forza d’animo e tenacia, ma non si va oltre a quello.
Durante l’addestramento invece la sua volontà di andare in guerra senza imbracciare il fucile ha una trattazione più problematica e articolata. In quelle parti si può leggere una certa incapacità dell’uomo guerreggiante di comprendere la necessità dei soccorsi. Poi, quando si va in guerra, tutti comprendono bene quanto siano necessarie persone come Desmond. Ma questo non intacca minimamente la volontà di fare la guerra e il regista stesso non pare essere nemmeno sfiorato dall’idea.
6.5/10
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