Ventenne americana, colpevole di aver preso parte a un inutile talent-show, proponendo una tutt’altro che memorabile cover di una brutta canzone di una pessima artista (sempre che Britney Spears si possa definire tale), Melanie Martinez non aveva esattamente attirato la mia attenzione in positivo, anzi, alla luce di quanto appena detto verrebbe da evitarla come la peste. Eppure… eppure tre anni dopo quel cestinabile debutto la ragazza fa uscire il classico disco pop che non ti aspetti.

Ora, non è che questo “Cry Baby” sia esattamente privo di difetti, tutt’altro: certi ammiccamenti a Lorde o Lana Del Rey, in pezzi come “Sippy Cup” o “Carousel”, risultano alquanto indigesti e in generale la scrittura dei brani strizza più di un occhio alle classifiche, risultando in diverse occasioni poco brillante (si veda “Soap” a tal proposito). D’altronde, date le premesse, non ci si poteva aspettare diversamente. C’è però da dire che in atri momenti il disco suona alquanto accattivante: saranno i testi non sempre perfetti, ma inaspettatamente maturi e insoliti per il genere, sarà la voce a tratti sussurrata, a tratti bambinesca della Martinez, sarà quel misurato intrecciarsi di drum machines, campionamenti elettronici e xilofoni e carillon sintetici, ma nella sua interezza “Cry Baby” risulta un disco molto personale, magari non originalissimo, ma di sicuro solido. Si avverte infatti il tentativo, non sempre riuscito, di conferire all’album una certa unicità, non solo sonora, ma anche concettuale: i testi delle canzoni, tutti scritti da Melanie, sono incentrati su una piccola protagonista, la “Cry Baby” del titolo, e sulla progressiva degenerazione della sua personalità, tra insuccessi nei rapporti personali (“Carousel”, “Pity Party”, “Training Wheels”), una famiglia tanto perfetta a vedersi quanto disastrata (“Sippy Cup”, “Dollhouse”) e addirittura un tentato stupro (“Tag, You’re It”, “Milk and Cookies”), fino a una completa distorsione del mondo che la circonda (“Mrs. Potato Head”) e all’accettazione che tutto questo ha sulla sua stessa psiche (“Mad Hatter”).

Temi non proprio leggeri che, uniti alle sonorità sopra descritte, danno forma a un gradevole electro-pop a tinte noir che, pur con qualche passaggio a vuoto o che sa di già sentito, risulta una piacevole boccata d’aria fresca in un panorama mainstream ultimamente piatto come non mai. Sufficienza piena, quindi, per un debutto in studio che non fa gridare al capolavoro, ma che si fa comunque apprezzare, a patto di soprassedere sul fatto che si tratta pur sempre di un album pensato per le classifiche e come tale va ascoltato.

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