L'esordio ufficiale dei Melechesh, nome di punta del panorama black/death israeliano e in generale di quella variopinta scena rubricata sotto la dicitura "oriental metal", risale al lontano 1996, quando venne pubblicato il full-lenght "As Jerusalem Burns... Al'Intisar", disco che ora vado a recensire. L'album raccoglie cinque pezzi usciti in un demo del ‘95 più alcuni inediti, per un totale di dieci tracce (dodici nella ristampa del 2002).
Si tratta chiaramente di black metal, come testimoniano la copertina e l'ugola di Melechesh Ashmedi (cantante, chitarrista e leader della band), ma di un black particolare; il gruppo stesso si serve dell'etichetta "mesopotamian metal" per indicare un bazar situato al crocevia tra i ritmi forsennati del black, i paesaggi del Medio Oriente e le antiche cosmogonie sumere. Scavando con attenzione nella sabbia emergono inoltre macerie di death (più numerose nei dischi successivi) e lacerti di folk metal danzabile. Viene spontaneo affiancarli ai Nile, anche se il paragone va preso con le dovute cautele: i Melechesh suonano infatti una tipologia di metal diversa e comunque non sono degli emuli (le due band hanno cominciato a muovere i primi passi più o meno nello stesso periodo) bensì dei musicisti con idee personali e ben definite.
Il range dell'album in questione è piuttosto ampio, spaziando dall'assalto frontale a episodi più lenti e melodici. Il primo è in pezzi tirati come "Sultan Of Mischeif" o "Hymn To Gibil", una specie di isterica preghiera al dio del fuoco del pantheon sumero, mentre gli spiragli melodici, oltre a squarciare le tessiture di un po' tutti i brani, emergono soprattutto nei mid-tempo di "Planetary Rites". Dentro anche canzoni lunghe e complesse come "Assyrian Spirit", che sfiora i dieci minuti, e una traccia strumentale come "Dance Of The Black Genji" con tanto di tamburelli, bonghi e atmosfere da mille e una notte. Dominano su tutto le scale orientali che conferiscono al veloce riffing black, di solito così gelido, una musicalità inusuale, direi quasi esotica.
Non va dimenticato comunque che si tratta di un esordio, e come spesso accade le intuizioni più originali convivono con palesi riferimenti ai maestri rintracciabili sia nei testi, con gli immancabili Satana & Bafometto che occhieggiano qua e là (ma che c'entrano con Gibil e compagnia?), sia nella musica. "Devil Night", ad esempio, è una galoppata thrash corredata da un assolo (l'unico dell'album), qualche parte vocale effettata che sembra uscita dai primi anni Ottanta e persino un paio di sghignazzate in puro Venom-style a suggellare il tutto: simpatico, ma già sentito.
In ogni caso i rimandi al passato non devono mettere in secondo piano l'originalità di questo debutto: anche se il mosaico qui abbozzato riceverà maggiore compiutezza nei seguenti lavori, già si nota, come dicevamo, il peculiare crossover tra black metal e Medio Oriente, nonché una certa disinvoltura nell'allontanare il black dalle sue radici scandinave per farne un linguaggio flessibile e contaminato. Ascolto consigliato.
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