Chissà perché, dopo aver studiato ed essermi esercitato in francese, per l’esame universitario (a distanza!) imminente, stamattina mi è venuta voglia di un po’ di sani anni ’90 stoner-sludge!? Su Facebook faccio parte di un gruppo di musicofili, in cui si partecipa, regolarmente, a diversi sondaggi sulle decadi del rock (et similia), a partire dagli anni Sessanta. Grazie al sondaggio ancora in corso, relativo agli anni Novanta, ho avuto modo di ascoltare – prima di poter dare la mia preferenza – album come “The Mollusk” dei Ween e “Ladies and Gentlemen We’re Floating In Space” degli Spiritualized. Il sondaggio inerente agli Ottanta si era concluso con la vittoria di “Remain In Light” dei Talking Heads, che aveva avuto la meglio su “Master of Puppets” dei neanche-ve-lo-sto-a-dire-di-chi-è-sennò-rischio-di-essere-pedagogico-e-di-parlare-dell’-acqua-calda.
Nonostante non sia presente in nessuno dei gironi previsti dalla nostra compagine di simpatici freakettoni, “Lysol” è un album che volevo ascoltare da tempo, e i Melvins sono uno di quei progetti che, nonostante la mia ignoranza, esercitano su di me un certo fascino. Di loro conosco, per averli ascoltati, l’esordioGluey Porch Treatments”, piccolo grande capolavoro dello sludge metal sposato al doom, e “Houdini”, che però, ammetto, dovrei riascoltare – anche se ne ho già un’impressione assai positiva.
Ad ascolto finito, sentendomi appagato e fortemente carico, inizio a documentarmi su “Lysol” e sul periodo di riferimento, perché mi aspettavo di apprezzarlo molto, ma non al punto di rimanerne rapito. È uno di quei casi in cui l’opera supera le più alte aspettative, da qui la necessità di scriverne.

Lysol”, lavoro conosciuto anche come “Melvins”, “Untitled” e “Lice-All” è la quarta fatica in studio dei Melvins. Uscito nel 1992, su etichetta Boner Records, viene registrato e prodotto con un budget a disposizione di appena 500 dollari. La “ciccia”, però, è tanta nei 31 minuti di durata di quello che da alcuni viene considerato LP, da altri EP. Sta di fatto che Buzz Osborne, consapevole che un extended play avrebbe meno probabilità di vendere e di essere preso sul serio, sceglie di portare il materiale a un minutaggio che gli garantisca che il materiale assemblato venga accreditato come un album a tutti gli effetti. Tutto questo viene portato a compimento senza eccedere. Il risultato è un concentrato intenso ed esaustivo di stoner rock granitico, che anticipa, e rende banali al confronto, le opere dei Sunn O))), che si sono dichiarati debitori del gruppo concittadino.
Dai Melvins non potete aspettarvi dolci melodie, ma stentoree cattedrali sonore erette dalla chitarra e dal basso, e, se ci sono melodie riconoscibili, queste sono inquinate scientemente da un apparato di distorsioni che non fa prigionieri. La grandezza della band di Seattle (costituitasi, in realtà, ad Aberdeen, Washington) risiede proprio nell’essere ostica ma non troppo, ergo non ripetitiva – nonostante fondi i propri brani su successioni “droniche” –, né eccessivamente pretenziosa.

Nessuna versione dell’LP presenta una tracklist, mentre in quella del CD l’intero set viene mostrato come un’unica lunga traccia, senza interruzioni. Le transizioni percettibili sono un condensato di cattiveria difficilmente rintracciabile in tanta della tradizione rock, anche quella meno accondiscendente.
Lysol” è costituito da 6 brani “in suite”. Quella che può essere considerata la parte centrale della “megacomposizione” è composta da tre cover: due pezzi degli Alice Cooper (“Second Coming” e “The Ballad of Dwight Fry”, entrambi tratti da “Love It To Death”, del lontano ‘71) e un brano dei Flipper (“Sacrifice”, dalla loro pietra miliare dell’agosto 1984, “Gone Fishin’”, esempio magistrale di fusione tra noise rock e punk, coniugata a un’estetica sonora, e a una grafica, lo-fi), complesso di San Francisco, attivo dal ’79, e sopravvissuto a diversi distacchi (a un certo punto entrerà in organico Krist Novoselic, che non ha sicuro bisogno di presentazioni). Ma tali rifacimenti non sono una mera scopiazzatura degli originali, bensì un degno tributo, e anzi si ritagliano uno spazio tutto loro. Immaginate i Neutral Milk Hotel rifare, alla propria maniera, una “Ambulance Blues” (Neil Young) o una “Sea Song” (Robert Wyatt), e forse renderò l’idea.
Le tre tracce rimanenti si appiccicano, come materia sonora stratificata, sulla pelle, e irretiscono i sensi, in una trance quasi-psichedelica guidata dalla voce di Buzz (soprannome di Osborne), e arricchita dalle “backing vocals” di Joe (basso) e Dale (batteria). Subito dopo la pubblicazione di “Lysol”, il primo dei due verrà licenziato per lo scontento manifestato verso i suoi compagni – uno scontento generato dalla poca considerazione che egli ritiene gli venga riservata. Ma prima, come estremo atto di generosità, Buzz fa sì che, nei crediti dell’album, il nome del bassista risulti graficamente più grande degli altri.
I testi – che siano firmati Melvins o da altri autori – non costituiscono manifestazioni di alta poesia, ma, naturalmente, non si richiede questo a sottogeneri del doom come lo stoner rock e lo sludge metal, per i quali si possono scrivere pagine riferendosi ai contesti storico-spaziali, e al sound.

Il titolo del disco, che sarà oggetto di controversia, sembra rimandare a “Bleach” (“candeggina”) dei loro colleghi ben più famosi, i Nirvana (lo stesso Kurt Cobain è di Aberdeen). “Lysol” (un marchio di prodotti per la pulizia sotto copyright) esce a un anno di distanza dalla consacrazione, via “Nevermind”, di Cobain e compagnia suonante. Il trio di Osborne si mantiene fedele a una certa etica professionale, facendo pochi compromessi. Anche quando avranno a disposizione un budget molto, ma molto superiore ai 500 dollari, i Melvins faranno un po’ il cazzo che gli pare: il loro ben più celebrato capolavoro “Houdini”, subito successivo a “Lysol”, riscuoterà un successo incredibile, anche se non paragonabile a quello dei Nirvana, e, nonostante questo, Osborne e i suoi compagni pubblicheranno un disco su un etichetta noise, Amphetamine Records, contravvenendo al patto stipulato con la Atlantic, la major con la quale hanno firmato, ma che li vorrebbe avviati a un sound meno difficile.
Il titolo, esibito sulla copertina della prima stampa, come anticipato, sarà soggetto alla censura: le copie rimaste invendute vengono immediatamente profanate, con l’applicazione di un adesivo nero sul nome del marchio commerciale. I fortunati acquirenti della prima ora si ritrovano, così, con un pezzo pregiato, che, non solo a livello storico, ma anche a livello commerciale, non lascia indifferenti. L’artwork rappresenta una versione, in due dimensioni, della scultura di Cyrus Edwin Dallin, “Appeal to the Great Spirit”, statua equestre ubicata di fronte al Museo delle Belle Arti di Boston. Nella stessa città, è presente l’altro monumento per il quale è ricordato l’artista dello Utah: la figura in bronzo di Paul Revere a cavallo (“The reincarnation of Paul Revere’s horse” vi ricorda qualcosa?). Ma non è con i Melvins che “Appeal to the Great Spirit” viene battezzato per la prima volta sulla “pouchette” di un vinile: nel ’73 l’immagine è stata scelta per la copertina del terzo album live dei Beach Boys, e ancor prima, nel ’70, per “The Time Is Near” della Keef Hartley Band.

Ad oggi, come negli anni ’90, il gruppo di Seattle è considerato un’istituzione della musica alternativa, ma rimane appannaggio di un pubblico di culto, sia per la particolarità della propria proposta, sia per l’etica di Buzz, motore propulsivo del progetto, dai suoi esordi ai giorni nostri. “Lysol”, secondo il modesto parere del “qui presente assente”, recensore, rientra tra le creazioni musicali più luminose, per quanto possa sembrare ossimorico, non solo dei Nineties, ma di tutta la storia dell’arte ritenuta “popolare”.

Voto: 9/10

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