Allora, ci sono voci catturate mentre scorrono sul filo di rame e suoni che scivolano su fibra ottica. C’è una palese evocazione di luoghi e modalità in cui questi sono stati vissuti e usufruiti sul piano muscolare e cerebrale. C’è, anche, una evidente afasia tra movimento e pensiero. Barlumi di ricordo lucido e pezzi di sonno pesante. La sensazione complessiva che si prova ascoltando "Seek Magic" è quella di ritrovarsi in posizione vitruviana a rotolare tra i ricordi e le sensazioni di un’altra persona.
Homemade sia per chi l’ha fatto, sia per chi l’ascolta. Sintetizzare a livello elettronico il proprio Ei fu è esperienza drammatica e coinvolgente. C’è una poetica delle rimembranze della campagna - del New Jersey - che ha fatto della contaminazione soffusa un progetto di metaracconto intertestuale davvero propositivo. Non avrei saputo citare Delorean, Neon Indian, Small Black e altri. Dopo che il cane ha iniziato ad abbaiare ho ascoltato tanto pop sintetico che – scontato - non ha tutte le influenze da me sentite, ma che mi ha fatto vedere quanto gli estremi ritenuti distanti, possano invece stare insieme, inconsapevoli, in un collage di minimalismi che scorrono su piste e tracce diverse. Il primo pensiero l’ho rivolto anche io ad un vialetto di campagna, con i fiori di camomilla rotti dal solco dei pneumatici. Contemporaneamente ho pensato ai Cocteau Twins, al mirabolante etereismo di Heaven Or Las Vegas, al biascicare pallido della mia voce da bambino, al quadro sinottico completo di questa situazione musicale ambientata in un altrove sfumato e fumato. C’è un’opera e ci sono contorni decolorati della stessa, una propulsione centrifuga che ambisce a ricostruire punti di riferimento. C’è però la sostanza del racconto, che si inserisce quando sembra di perdersi nel vaneggiamento, che toglie fuoco al pallone aerostatico e consente di mantenere una rotta per cui i territori sono ancora visibili. I bassi e i beat / bit dall’irruenza evocativa che ti fanno sentire spettatore di un evento di spropositate dimensioni.
Sorprende la ballabilità di questa musica, dispettosa nei confronti del mainstream, un gradino sopra la possibile commercialità. Ho pensato anche agli Heroes Del Silencio più liquidi, quelli di La Espuma De Venus, all’assolo da sentiero onirico che conduce nella sala della sauna mediterranea. Mi sono venuti di riflesso pavloviano i Daft Punk, o quelli che cantano che ho bisogno di te, come i deserti hanno bisogno dell’acqua. Ma la cosa migliore di questo disco è che, nonostante i suoi mood alternativi da cinema indipendente, è manifestamente partorito da un’unica testa, peraltro molto semplice e facilmente collocabile nel luogo da cui proviene. Come dire, sono pensieri di un qualunquismo scintillante, resi in forma canzone contemporanea. È per questo che è tutto molto pop. Ed è anche per questo che è tutto molto synth. Prima di diventare famoso, l’autore doveva essere una persona annoiata.
Sto parlando di Davye Hawk che, prima di avviare il progetto a lungo cronometraggio "Memory Tapes", aveva già lavorato con i monicker Weird Tapes e Memory Cassette. Lui viveva e dormiva nella lavanderia dei suoceri. Lavorava in una drogheria. Ha una figlia. All’epoca c’è stato su per tre ore a notte, smanettando con un Imac (Ableton Live), chitarre, pedaliere e sintetizzatori.
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