Cherubini in tute di latex che zompettano tra nuvole di zucchero filato. Tale è la fastidiosissima immagine che si è da subito insinuata nella mia testolina durante l'ascolto di questo ultimo lavoro dei Mercury Rev. O quella di un incidente stradale tra i Beach Boys di "Pet Sounds" e i Radiohead elettronici, causa mancato rispetto di uno stop da parte dei Talk Talk.
Che sia sperimentazione o ricerca stilistica l'approdo ultimo di Dellahue e soci è un'ibridazione con sonorità elettroniche, la sinteticità eighties inserita nel canovaccio dream-pop delle ultime deludenti prove. Se siete reduci dall'ascolto dei primi due lisergici lavori, o del fantastico "Deserter's Songs" l'approccio con questo "Snowflake Midnight" (primo di due dischi complementari, il prossimo dovrebbe uscire in ottobre) potrebbe essere caratterizzato da totale disgusto o inconscio rifiuto verso quanto vi si propone all'ascolto.
Di primo acchito i primi due pezzi paiono abbozzi melodici poco ispirati intelaiati su strutture glam-pop, con beat elettronici e tanti coretti angelici affogati in un mare di synth. "Senses On Fire" accellera il ritmo, ma è solo uno stacchetto e l'elettronica continua a farla da padrona.
Di lì a poco si giunge però all'apice dell'opera, e si è posti dinnanzi a un deserto di desolazione, un momento di sospensione atmosferica fatta di tappeti tastieristici a creare un climax struggentemente sognante; e qui arriva lo schiaffo all'ascoltatore, colpevole d'aver ricercato nel disco la proiezione delle proprie aspettative nella direzione artistica desiderata.
E ci si rende conto di avere a che fare con una creatura musicale imprevedibile e totalmente aliena rispetto alla scena contemporanea, quello che i Rev hanno fortemente voluto con "Deserter": un distacco dalla realtà, un rifugio per la mente nella matassa dell'inconscio, tra la vaga incertezza dei sogni. Quegli strumenti e quella voce perdono d'un tratto concretezza e riscontro (anche di giudizio) col reale, accarezzandoti e atrofizzandoti dolcemente le percezioni.
Cori, synth, tastiere e beat elettronici acuiscono questo senso di astrazione sensoriale, percorrendo lo spettro delle emozioni dalla giovialità all'inquietudine ("Dream Of A Young Girl As A Flower") passando tra aperture melodiche e ritmiche sincopate, spesso contrastanti con le atmosfere del cantato, ma perfettamente e coerentemente incastonate nel complesso.
"Faraway From Cars" sottolinea fin dal titolo questa scissione col mondo veloce e disumano che ci circonda, con un veloce battito di mani e atmosfere che si fanno sempre più distanti e malinconiche, per perdersi e poi ritrovarsi quando il battito si ripropone.
L'ultimo giro di boa è illuminato da un synth che imita il pianto di un neonato, o da un neonato che imita un synth: l'astrazione quale modo migliore per parlare della realtà, che si esprime in modo compiuto e spalanca le porte della nostra sensibilità quando sapientemente sospesa nell'indefinito di cui siamo realmente fatti.
Il cielo per parlare della terra, il sonno per parlare della veglia. E dopo che il disco è giunto al termine (troppo presto) si hanno svariati motivi per voler attendere il secondo capitolo.
Bentornati Mercury Rev.
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