Track 1: “I Am Colossus”. Il codice di decifrazione dei Meshuggah? I cinque svedesotti stanno tentando di scolpire l'ordine immutabile di un genere. Il death metal che nasce dalla loro preziosa follia compositiva è un leviatano di “dominance and greed”. Materia da plasmare a loro esclusivo ed avido appannaggio: non esiste alcun ossequio dei princìpi in questo fantoccio ordinamento musicale del Caos. O meglio, la regola armonica è si necessaria ed è molto apprezzata. Ma è utile fintanto che si può fare di essa uno strumento del dissonante muro sonoro costruito dalla band. Oramai neppure loro possono più usare contro questo “colosso” un singolo passaggio cromatico. Gli si rivolterebbe contro l'intera struttura del tutto.
Track 2: “The Demon's Name Is Surveillance”. Sound moderno, libero. Certo, ma è solo facciata: il vero nome del demone è il controllo totale. “All-seeing instruments” and “supreme perception” che tutto possono. Sotto sotto i Meshuggah perseguono la mutevolezza della perfezione esecutiva, il suono inarrivabile di una divinità. La plettrata algida di questa tipologia di oltre-uomo del futuro non conosce sbavatura, né oscillazione casuale di neppure un decimo di tono. Meglio ancora se attraverso l'espediente tecnologico.
Track 3: “Do Not Look Down”. Cosa rischiano di diventare le loro forme una volta scolpite nella roccia? Non potranno essere più rimodellate se non al prezzo usurario - e dovuto - per conferire loro di nuovo un senso. Ed a metà del minutaggio, puntuale, si riascolta quel “djent” jazzato, tormentato dai colpi in levare del rullante di “Nothing” (2002). Il marchio dei Meshuggah è partorito dal niente: siamo noi il prodotto. “Strive, strive, surmount the obstacles”. “Become the essence of your goals”: il prodotto siamo sempre noi. Comunque gran pezzo.
Track 4: “Behind The Sun”. “The doctrine of your unholy trinity - the violence, the spite and the enslavement”. Cosa? Ora provano addirittura a guidare le nostre coscienze? Si stagliano invece le partiture opprimenti, in fine consolidate solo con “ObZen” (2008). Serrati trigger di cassa compaiono, sempre alla metà, quasi a spezzare l'incedere dei pesanti riffoni doom di apertura.
Track 5: “The Hurt That Finds You First”. Si passa al “tupàtupà” cassa/rullante, immancabile. Servirà a stroncare la passione residua per una qualsiasi forma di convincimento. “End this debate, no need to dream of solace”. Dissentire sarebbe sconveniente: è necessario aderire al loro credo ed allo stesso tempo essere consapevoli del vuoto che ci circonda. Come consuetudine, a metà il brano cambia registro. Verso soluzioni dalle dinamiche in discesa, un po' meno granitiche e stereotipate. Una effimera boccata d'aria allo zolfo.
Track 6: “Marrow”: il nòcciolo del nulla prescrive anche le regole del suo perpetuarsi. E' consentito farsi largo nelle maglie di questo big-bang esclusivamente raccogliendo i cocci del massacro.
Track 7: “Break Those Bones Whose Sinews Gave It Motion”: persistenti atmosfere sulfuree, sempre come sul finale di “Nothing”. Temerario anche pensarci: l'evoluzione del Meshuggah sound non potrà mai abbandonare del tutto queste corde.
Track 8: “Swarm” è il solito vespaio di riffs così minuzioso da non conoscere paragoni. Il non-ordine perfetto è dunque creato e soffre il raffronto con altri criteri ed altri rapporti di armonia. Tentare di prospettare altre soluzioni non servirebbe altro che a malcelare inesperienza.
Track 9: “Demiurge”: ai demiurghi dell'estinzione il brand appare, oramai, solo un fardello. Aspiriamo a questa nemesi consapevoli di non poter assurgere ai ranghi che oggi competono ai cinque pazzi di Umea. Non sarebbe elegante nei loro confronti.
Track 10: “The Last Vigil” è il rischiarante chill-out del finale. Ebbene sì, che ci crediate o no, i nostri intendono rappresentare la luce diurna. Tutto il resto del genere, a confronto, deteriora verso il buio. E' irregolare, scapestrato. Al più, semplice e ingenuo, degno solo di un ascoltatore sprovveduto.
Corollario dello scribacchino: “Nothing” e “ObZen” - più ancora che il paradosso di “Catch 33” (2005) - furono plasmati da una massa compositiva distruttiva e nichilista di esplosiva ed inestimabile energia. “Koloss” è si la stessa sostanza. “Koloss”, però, intende porre in essere definitivamente un canone. Ma non ci venga in mente che i Meshuggah stiano giocando ad essere gli “dei ex machina” del death, techno thrash, o che dir si voglia.
Si sono già spinti troppo oltre la scena.
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