Quando i Meshuggah diventarono i Meshuggah. Abbandonate le urla belluine e sguaiate e la prolissa staticità del thrash metal dell'esordio, la formazione techno-thrash di Umea progetta il ritorno sulla scena; le carte in tavola sono rimischiate e poi stravolte, e questo disco suona moltissimo come una (rabbiosa) dichiarazione d'intenti.
Suoni dissonanti aprono "Humiliative", seguiti da un basso distorto e tremendamente freddo che fa da preludio alla furia questa volta cattiva e ragionata delle vocals, a cura di uno Jens Kidman dedito unicamente alla decantazione di queste ultime. La canzone procede con tempi dispari e ritmiche jazz/fusion, che però non sono relegate a una pura dimostrazione di capacità tecnica, ma costituiscono l'ossatura del brano e il "mezzo" con il quale i meshuggah riescono a suonare al limite del rumorismo (pochissimo spazio concesso alla melodia), ma sempre e comunque nel totale equilibrio musicale, tanto che la traccia è quasi "ficcante".
Discorso analogo per la canzone successiva, "Sickening", con il valore aggiunto di parti strumentali che ne spezzano il ritmo, senza risultare "attaccate lì" o fini a se stessi; la macchina Meshuggah rallenta, cigola, come a voler sottolineare la pesantezza e la follia di passaggi tiratissimi sentiti poco prima. Con la successiva "Ritual" si ritorna in lidi familiari al precedente full length del gruppo, i riff si fanno meno intricati e le influenze di Pantera e Metallica si fanno sentire anche nella voce di Jens Kidman, facendo temere un "ripensamento" da parte del gruppo... Tutto finchè il bellissimo solo "free" di Thordendal riesce ancora a stordire l'ascoltatore spegnendo per un attimo il suo senso critico.
Il disco si chiude con due brani personalissimi ed essenziali nell'economia di questo ambizioso dischetto "Gods Of Rapture", un po' la summa di quanto sentito fino ad ora, e "Aztec Two-Step", in cui il gruppo rompe le rigide metriche compositive che hanno caratterizzato le canzoni precedenti travolgendoci con gelidi campionamenti industrial, urla lancinanti e silenzi interminabili, senza soluzione di continuità: la macchina Meshuggah libera l'energia repressa senza accorgimenti atti a evitare danni, ne risulta il totale straniamento di chi ascolta.
Superfluo soffermarsi sulle prestazioni dei singoli membri, in quanto l'organicità della proposta sonora fa si che nessuno spicchi in particolar modo sugli altri, ognuno dedito a plasmare un suono che parte da basi vecchie ma che suona terribilmente fresco e "giovane", trainato dal personalissimo drumming di Thomas Haake, pilastro della sezione ritmica insieme a Peter Nordin, (basso) e dai due chitarristi Thordendal e Hagstrom.
Tutto ciò contenuto in un Ep di sole cinque traccie essenziale ed equlibrato nella sua brevità, che suona come un potente scossone ad un genere, il metal, che più che mai si stava uniformando ai trend stilistici allora in voga.
Un calcio nei "gioielli" che non provoca dolore al bassoventre, un dolce masochismo che può dare assuefazione..
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