Chi nel 1992 amava consumare i pomeriggi bazzicando per squallidi negozi di provincia, ricorderà senz'altro la copertina di un album che in quel periodo era solito giacere ad accumular polvere alla lettera M di quegli scaffali che messi insieme ambivano ad essere un sobrio reparto metal in un contesto generalista. Parlo di “Rotten Perish”, vi ricordate?, quella copertina azzurrina con l'angelo in primo piano che indica la via dell'Eden allo storpio con le stampelle, mentre altri storpi venivano condotti in mesta processione verso l'Aldilà, quel dischetto di luce che campeggiava in alto nel cielo, simboleggiando la meritata ricompensa dopo una vita di stenti e dolore.

Erano i Messiah del buon Remo Broggi, death metal d'annata dalla vicina Svizzera: con “Rotten Perish” i Nostri raggiungevano il loro apice artistico, per mezzo di un death metal sì classico ma non privo di atmosfera, i Messiah consegnavano così il loro contributo alla storia del death metal, ipotecando quella che pareva essere la loro particella di immortalità, per poi invece precipitare nuovamente nell'anonimato ed avviarsi ad una repentina estinzione.

Più di vent'anni dopo (cazzo come passa il tempo), non sono qui io a parlarvi di “Rotten Perish” (oggi quell'album non lo sfioro nemmeno con un palo di tre metri, vuoi per la non-voglia di death metal classico che contraddistingue il mio presente, vuoi per l'angoscia che mi procura il solo mirar la copertina – eh..... non ho più l'età – e i suoi torbidi contenuti), ma di “Underground”, il canto del cigno dei Messiah, ultimo loro lavoro licenziato due anni dopo, con una formazione totalmente stravolta ed un sound stravolto anche quello.

Correva l'anno 1994, un periodo in cui già parlare di death metal classico annoiava gli addetti ai lavori: i Death di “Individual Thought Patterns” avevano una volta per tutte chiuso l'argomento a possibili repliche, mentre già band illuminate come Pestilence, Cynic ed Atheist stavano spostando le coordinate stilistiche del genere verso lidi meno ortodossi. Ma in verità tutto l'estremo si stava guardando intorno: la Svezia già prendeva le misure per una forma più melodica di death metal (At The Gates, Edge of Sanity, Dark Tranquillity, In Flames ecc.), in Inghilterra invece il gothic/doom era già una realtà (Paradise Lost, My Dying Bride, Anathema ecc.); insomma, un po' ovunque nel globo si stava imponendo una sete di evoluzione che stringeva all'angolo le band della vecchia scuola, destinate o a rimanere salde sui loro passi sfidando i rischi di una precoce obsolescenza stilistica, oppure a prendere le palle in mano e gettarsi nell'azzardo di una strada incognita alla ricerca di qualche elemento di freschezza.

I Messiah (supportati anche da un retroterra cultural/musicale sicuramente aperto alla contaminazione – vedi band come Celtic Frost e Coroner) optano per la seconda strada, forti di un bagaglio tecnico consolidato nell'arco di ben quattro album (non sono certo dei novelli i Messiah, che datano la loro origine all'anno 1986). Broggi si affaccia al suo quinto lavoro disfacendo metà della formazione, confermando il solo Steve Karrer dietro alle pelli, acquistando al basso Oliver Koll e rimpiazzando dietro al microfono lo storico Andy Kaina per sostituirlo niente popo' di meno che con Christofer Johnsson, all'epoca ancora misconosciuto militante nei Carbonized e già mastermind dei Therion: sì, quei Therion che da lì a poco tempo diverranno i paladini della musica sinfonica in salsa death metal.

Ma stiano pure buoni i fan della seminale band svedese, poco rinverranno del loro gruppo preferito fra i solchi di questo “Underground”, anche perché all'epoca gli stessi Therion erano titolari di una proposta ancora acerba (era uscito l'anno precedente l'ancora claudicante “Symphony Masses”, mentre sarà dell'anno successivo l'album “del salto di qualità” Lepaca Kliffoth”): l'unico trade d'union fra le due band è dunque solamente la voce di Johnsson, nemmeno una gran cantante a dirla tutta, e non è un caso che egli stesso sarà il primo a manifestare un certo disagio dietro al microfono, oggetto che abbandonerà al più presto dopo la pubblicazione del capolavoro “Theli”, nel quale il ruggito del Nostro era già stillato con il contagocce fra soprani femminili e cori operistici.

Ma se la performance sgangherata del giovane Johnsson non rimarrà certo impressa a caratteri cubitali negli annali della musica estrema, è un dato di fatto che il suo vocione “non proprio canonicamente death” (solo sporadicamente il Nostro si abbandonerà al growl più efferato, ma per il resto si muoverà su vocalizzi comprensibili e continui cambi di registro, non disdegnando nemmeno qualche esplorazione nel campo del pulito), si conferma l'elemento di novità essenziale che alberga nell'ultima prova in casa Messiah: una ventata di aria fresca fortemente ricercata dal padre padrone Broggi, che evidentemente aveva bisogno di uscire con prepotenza dagli angusti recinti del death metal classico di cui era stato illustre esponente.

Cosa ci combina quindi il nostro Remo? Anzitutto c'è da di dire che, sebbene la mano rimanga sostanzialmente shuldineriana, il Broggi è un signor chitarrista, più in sede ritmica che di assolo (pochi e poco rilevanti i momenti solistici), artista dotato di una personalità ed animato da un'urgenza comunicativa fatta di riffoni storcicollo pervasi da un'aura decadente ed epica che ne descrive la cifra stilistica. Karrer dietro alle pelli gli fornisce il dovuto contributo, ed insieme i due (forti di un bel feeling) allestiscono un sound robusto e nervoso, tributario delle vecchie glorie del thrash teutonico (Sodom su tutti) e scosso da visioni apocalittiche (inutile stare a ricordare l'inevitabile influenza dei conterranei Celtic Frost), ben ricamate dal basso fantasioso (quando si sente) di Koll (che, come tutti i bassisti dell'epoca dotati di una certa tecnica, non evita di cadere nella trappola del “ma quanto vorrei essere Steve Di Giorgio”) e dallo sperticarsi senza posa di quel mezzo cabalista e mezzo vichingo che è Johnsson.

E proprio all'insegna di umori squisitamente vichingheschi si apre l'album con la debordante opener “Battle in the Ancient North”, una cruenta cavalcata dall'impetuoso incipit che ci trascina nel vortice dei sanguinari scontri fra pagani e cristiani nella scandinavia di mille anni fa (ma anche su altri fronti rinverremo, a livello tematico, l'impronta della mente dei Therion). Il sound dei Messiah targati 1994 è indubbiamente alleggerito rispetto al passato, ma riluce di una rinnovata freschezza, di un dinamismo, di un groove che certo faranno la gioia degli amanti del timpano rovente.

La prima parte dell'album fugge così via all'insegna di brani brevi ed accattivanti che tuttavia non cedono alle lusinghe di un banale formato canzone, inerpicandosi invece in strutture di una certa complessità al cui interno la band sa assestare più di un tiro a segno, vuoi per il talento melodico insito nel chitarrismo tellurico di Broggi, vuoi per l'eclettismo e il piglio teatrale di Johnsson dietro al microfono. Fra questi primi brani citerei senz'altro la violenta title-track, manifesto concettuale dell'album (non altro che un j'accuse indirizzato a quelle giovani death metal band che invece di osare amava, dietro ad una posa stupidamente arrogante, scimmiottare i maestri, ripetendone pedissequamente le idee e svilendo la carica rivoluzionaria del death metal delle origini).

Ma le vere sorprese (e non è detto che siano buone) iniziano con l'ottava traccia, quella “The Ballad of Jesus” che annette in sé elementi techno/dance floor (!!!) coniugandoli ad un testo puerilmente blasfemo che susciterà più di un moto di imbarazzo nell'ascoltatore. E' dunque il poker finale di brani che spinge l'album (fino ad un momento prima impilato ordinatamente nel bacino di un thrash tecnico, non di certo avaro di soluzioni melodiche, né indifferente a rigurgiti più classicamente hardcore) verso i lidi della sperimentazione. E così “Dark Lust” si fregia di un ritornello darkeggiante con tanto di voce pulita e della poesia visionaria di incursioni acustiche che si ritagliano varchi fra le rocce roventi del metallo, mentre la travolgente “One Thousand Pallid Deaths” riassume nei suoi cinque minuti tutto il dinamismo che covava straripante nelle mani e nell'estro di Broggi. Estro che nella porzione finale dell'album si stempera inaspettatamente dietro allo stendardo lercio del doom più malinconico, lungo la coda del pezzo appena citato (in questo caso, sì, più vicino alle atmosfere dei Therion), che sfuma senza soluzione di continuità nel fragore apocalittico della conclusiva traccia strumentale, la quale si porta dietro il prevedibile nome di “The End”.

Si apprezzano quindi il coraggio e le premesse che stanno alla base di questo “Underground”, anche se la svolta operata dalla band nel voler ostinatamente travasare il proprio classicismo in una forma più modernista non è sempre convincente. E non solo per due o tre pezzi indubbiamente meno riusciti che finiscono per appesantire l'ascolto: i Messiah, come successo ad altre band provenienti dalle medesime sonorità e portatrici dei medesimi intenti (mi vengono in mente formazioni come Cancer, Morgoth e Gorefest) non riescono fino in fondo a scrollarsi di dosso l'essenza di “vecchie gloria del death metal classico” ed aderire in modo aggraziato a quel paradigma di cambiamento che invece consegnerà alla storia del genere estremo i nomi di altri loro colleghi che in modo più incisivo e meno maldestro hanno saputo governare in quegli anni le prepotenti energie volte all'innovazione di cui disponevano.

E infatti il destino dei Messiah non sarà radioso: dopo la pubblicazione in sordina di “Underground”, Broggi si ritirerà a vita privata, con la consolazione che nessuno lo potrà certo criticare per non averci almeno provato.

FOR THOSE WHO WILL FAIL

ORA, UXOREM, NATURA

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