Tempo di quarta prova sulla lunga distanza, ma col forte sapore di ultima spiaggia, per il duo statunitense MGMT.
L’eredità di un esordio fondamentale come “Oracular Spectacular”, capace di ergersi a classico dell’indie rock moderno e di regalare ben tre grandi classici del genere (l’ormai iconica “Time To Pretend”, oltre a “Kids” ed “Electric Feel”), si è rivelata ben più pesante di quanto il duo formato da Andrew VanWyngarden e Ben Goldwasser potesse pensare, tanto dal far sbandare pesantemente la band attraverso sperimentazioni fini a sé stesse che hanno portato a poco (l’appena sufficiente secondo album “Congratulations”) o niente (il terzo disco eponimo).
Per questo nuovo, attesissimo, “Little Dark Age”, i due hanno quindi deciso di partire col piede giusto; nuovi produttori (oltre agli stessi MGMT, Patrick Wimberly del duo synthpop Chiarlift e Dave Fridmann, storico sodale di Mercury Rev e Flaming Lips) e, soprattutto, un (azzeccato) recupero di un linguaggio musicale pop, andato disperso nelle due precedenti releases. Un approccio evidenziato dai quattro singoli estratti prima dell’uscita del disco; il lead e title track aveva erroneamente fatto pensare ad un approccio new wave, subito smentito da “When You Die”, co-firmata da un nome di peso come Ariel Pink (e si sente) e dominata da un ritornello che si ficca in testa al primo ascolto, folk ornato da delicati ed apprezzabili orientalismi. “Hand It Over” è un fumoso lento che si prende l’onore e l’onere di chiudere il disco, in coppia con l’altrettanto eterea “When You’re Small”, mentre lo strepitoso tripudio 80’s in odor di Wham! di “Me And Michael” fa il paio con l’altrettanto pomposa e più ritmata “One Thing Left To Try”.
Divertente e azzeccata la sfrenata opener “She Works Out Too Much”, che sembra arrivare da dei Daft Punk che si strafanno di LSD in compagnia dei B-52s. “James” pesa dai Floyd periodo Barrett, e si sente, mentre “TSLAMP” giochicchia con il tropical.
Un gran disco, questo “Little Dark Age”; un pieno rilancio del duo statunitense, e quello che gli anglofoni chiamerebbero un “return to form” a tutti gli effetti. Un album che recupera in accessibilità rispetto alle due prove precendenti, non si perde in sperimentalismi fini a sé stessi e si lascia ascoltare con una facilità disarmante. Scelta ottima in anche in chiave qualitativa, visto che i nuovi brani possono tranquillamente stare accanto alle cose migliori del passato del duo, senza minimamente sfigurare.
Bentornati, decisamente.
Traccia migliore: When You Die
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