La storia degli MGMT è da sempre paradigma dei rapporti travagliati tra i vertici del fatidico triangolo artista-etichetta-pubblico. Andrew VanWyngarden e Benjamin Goldwasser hanno attirato le attenzioni di varie major nei loro primi anni di attività, quando sotto il nome di Management sfornavano potenziali hit synth-pop dal sapore estivo e tremendamente indie, prima di firmare per la Columbia Records nel 2006. Fatalmente, non molto tempo dopo, i due hanno avuto un'epifania musicale, parzialmente indirizzati dal produttore Dave Fridmann: il loro genere era il rock psichedelico.
Ma la Columbia aveva messo sotto contratto due giovani hitmaker, non di certo i primi Pink Floyd. E il percorso per arrivare al primo album ufficiale non poteva non passare dalla riregistrazione delle orecchiabili "Time to Pretend" e "Kids", che nella versione di "Oracular Spectacular" (2007) hanno assicurato agli MGMT il successo di pubblico. L'insofferenza per il pop degli anni Duemila però era già ben evidente in quel debutto: all'infuori di "Electric Feel", che completava il terzetto di singoli, le canzoni seguivano una strada più tortuosa, suggerendo allucinate fantasie orientaleggianti ("4th Dimensional Transition") o implodendo in fraseggi post-rock ("Of Moons, Birds & Monsters"). E, se il testo di "The Handshake" era un'aperta denuncia all'obbligo contrattuale, la casa discografica poteva ancora consolarsi con le straordinarie vendite del disco.
Rotto il ghiaccio nell'industria musicale, gli MGMT sapevano però benissimo dove andare a parare. "Congratulations" (2010) è una left turn in piena regola: scomparsi del tutto i brani da dancefloor, la sensibilità pop viene indirizzata su coordinate più tradizionalmente psichedeliche, dando vita ad un album forse poco originale ma senza dubbio coraggioso. Inizialmente bastonato dalla critica, "Congratulations" ha gradualmente conquistato un po' tutti, spazzando via le voci di un ritorno al synth-pop e concedendo una maggiore libertà artistica al duo.
Una condizione privilegiata, che VanWyngarden e Goldwasser hanno sfruttato malissimo: l'album omonimo, datato 2013, è un ingarbugliato resoconto delle loro fascinazioni al tempo, sospeso tra ulteriori omaggi alla psichedelia degli anni 60 e 70 (la cover "Introspection" e il gioiellino "Alien Days"), brani distorti all'inverosimile ("Mystery Disease"), nenie sintetiche ("A Good Sadness") e qualsiasi cosa avessero in mente quando sono entrati in studio per registrare "Astro-Mancy" e "Plenty of Girls in the Sea". Non una débâcle totale, ma certamente un disco fuori fuoco e un grande punto interrogativo sul futuro del duo.
Gli attriti emersi durante la registrazione dell'album si sono sciolti durante il lungo silenzio che ha portato a "Little Dark Age", disco del 2018 che ha visto gli MGMT tornare a giocare col pop in modi inaspettati: sul modello del loro debutto, metà dei brani è rarefazione psichedelica e metà un trionfo di melodie immediate, questa volta in territorio new wave. Forse il primo momento della loro carriera in cui artista e critica sono andati a braccetto, ma nessuno avrebbe potuto prevedere il successo ritardato del singolo "Little Dark Age" presso il pubblico: la variabile impazzita si chiama TikTok, piattaforma che ha fatto salire alle stelle la popolarità della canzone, rilanciando enormemente le quote degli MGMT e procurando loro migliaia di nuovi fan in tutto il mondo.
Per una carriera fatta di così tanti alti e bassi, la musica degli MGMT è straordinariamente normale. Indipendentemente dalla strumentazione che li accompagnava, i loro testi si sono sempre soffermati su temi esistenzialisti, coniugando nostalgia, pessimismo e (metaforiche?) dosi di LSD. A circa vent'anni dai loro esordi e sei dall'ultimo disco, al duo non si poteva chiedere di meglio che una retrospettiva fatta con criterio, e "Loss of Life" è esattamente questo.
Il disco, come raccontato alla stampa, è costruito sul modello di una seduta terapeutica: l'ascoltatore sente un motivo misterioso, inaccessibile, insieme ancestrale e apocalittico ("Loss of Life, Pt. 2"), scava a fondo nella sua coscienza analizzando ciò che lo circonda, fino a guardarsi alle spalle e scoprire di avere almeno una parte degli strumenti necessari per decodificare quel motivo ("Loss of Life"). È un disco sull'accettazione della morte, assemblato apparentemente al contrario e rifuggente conclusioni grandiose e dall'interpretazione univoca, come a rendere l'idea di quanta vita ci sia nella morte e viceversa. Eppure, ancora una volta, è straordinariamente normale.
Mi spiego meglio. I testi di VanWyngarden non sono mai stati così onesti e terreni, anche quando utilizzano fantasiose metafore: "Bubblegum Dog", incentrata sulla difficoltà di conciliare i propri difetti con le difficoltà del mondo esterno, il dolore che deriva da questo contrasto è raffigurato come un cane (alcuni hanno pensato ad un riferimento ad una citazione di Nietzsche) di gomma da masticare sempre in agguato e mai definitivamente sputato, un continuo rigurgito. E particolarmente interessante è anche la sorta di poetica delle piccole cose che emerge in altre porzioni del disco; un esempio sono le prime e significative frasi cantate del disco, quelle che aprono il singolo "Mother Nature": "I put the groceries down on the front lawn / And think maybe the children just want recognition".
E, se a volte è difficile distinguere l'immaginazione dalla realtà ("Did I dream before? I felt like I couldn't love no more", da "Phradie's Song"), quando quest'ultima emerge lo sguardo del narratore è totalmente disilluso: è un mondo in cui nulla cambia in meglio ed ogni forma di rivolta – contro se stessi o contro le ingiustizie che ci circondano – sembra destinata a fallire. L'inesistenza di una curva di apprendimento che conferisca un senso al procedimento basato su tentativi ed errori è ben rappresentata dall'ipnotico giro di chitarra acustica su cui si fonda "Nothing to Declare" ("The waters beckon me to dive / I can tell the pearl's in there / And still there's nothing I can find").
Nonostante le considerazioni sui testi, questo "Loss of Life" complessivamente è tutt'altro che un lavoro cupo. Salvo sparute eccezioni, come le già citate tracce di apertura e chiusura, la musica è vibrante e talvolta persino gioiosa. "Mother Nature" e "Bubblegum Dog" sono i pezzi più elettrici (azzeccatissimi gli assoli di chitarra e clavicembalo in quest'ultima), mentre "Dancing in Babylon", in collaborazione con Christine and the Queens, ricrea con maestria le atmosfere di certi duetti romantici degli anni Ottanta.
Anche in passaggi più dimessi, come "People in the Streets", le chitarre acustiche sono calde e avvolgenti (il lavoro di Daniel Lopatin alla produzione è impeccabile) e c'è spazio per un'esplosione di archi sintetizzati. "Nothing Changes" è uno dei pezzi più fuori personaggio del lotto: nella prima parte avvicina gli MGMT ai Cure più sognanti, per poi tirar fuori dal nulla assoli ascendenti di tromba che fanno da contrappunto alla voce. Il trittico finale rallenta vistosamente i ritmi e, pur perdendo buona parte dell'incisività dei brani precedenti, è un ragionevole viatico per il viaggio verso l'aldilà.
"Loss of Life" è l'album di due musicisti che sentono di non avere più nulla da dimostrare agli altri e creano musica soprattutto per sé, sperando che qualcun altro nel percorso possa trovarvi conforto. E chi ascolterà con sufficiente pazienza queste canzoni avrà trovato un provvidenziale compagno di viaggio, nella vita di oggi e in quello che verrà.
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