È da quando non ho più dodici anni che ho iniziato a provare indifferenza per il periodo delle feste, a volte quasi fastidio.
Non sempre ovviamente, anzi negli ultimi anni di scuola le feste erano diventate una favolosa occasione per cazzeggiare come disperati con gli amici, mangiare pizza dal cartone stesi sul divano giocando a Tekken, tentare di fare il bombardino in casa, lamentarsi della penuria di droghe leggere sotto Natale riuscire a racimolare uno sbaciucchio non si sa come. Non sarà stato nulla di che, ma era di sicuro meglio di oggi: eccomi qua senza un soldo, senza prospettive e senza nessuna fiducia nell'avvenire, fuori dal bar dei cinesi a bere fernet con ghiaccio fumando sigarette al mentolo di cui ho fatto scorta all'estero. "Kourení vážne škodí vám i lidem ve vašem okolí", mi sussurra seducente il pacchetto. "Hai proprio ragione amico tabacco, ma non c'è niente da fare. Posso al massimo tuffarmi nei ricordi". Ed eccola che arriva, la nostalgia. Struggersi per qualcosa di passato, solitamente mai vissuto ed idealizzato fino al ridicolo. Questa tendenza è sempre esistita, anche tra i più giovani. Ma se una volta questo fenomeno spingeva a votare MSI e a comprare calendari orrendi, oggi al massimo si passano ore a guardare vecchie pubblicità in videocassetta; cosa certamente più utile per l'individuo e la società. Di questa nostalgia farlocca ne sono vittima anch'io (quella delle VHS, non quella del DVX), ma per questa occasione ho deciso di scegliermi da solo il periodo da ricordare.
Parlavamo del 2010 prima: vi ricordate com'era quattro-cinque anni fa? Eravamo tutti più giovani, gli zarroni avevano appena iniziato a sostituire l'electro-house con la dubstep, Di Pietro era ancora in parlamento ed andavano un sacco quei gruppi tipo MGMT, Kisses ed Empire of the Sun che poi che fine abbiano fatto non si sa boh. Roba adolescenziale e spensierata, pop synthetico, psichedelia d'accatto e tanta melodia. Electropop e synthpop (ma c'è differenza?), synthpop e synthwave (e qua invece?), electro-disco ed indie pop (cioè indie con le tastierine che non è indie). Tra questi gruppi anche i Miami Horror, Quattro ragazzi, ovviamente australiani, che "oh ma hanno davvero bisogno di essere in quattro sti qua?" e ci regalano Illumination, dischetto che nel suo essere senza pretese non ha una nota fuori posto. Ed in un gioco di scatole cinesi precipitiamo dalla nostalgia forzata per un periodo di vita vissuta conclusosi da poco alla nostalgia plastificata che ci regalano i quattro australiani che "o dall'australia o dal canada potevano venire fuori". Allontanarsi da Miami in autostrada con l'alba alle spalle e Soft Light nello stereo. Darsi ai farmaci giamaicani nel retro di un maggiolone come in un video dei Tame Impala ascoltando Summersun. La gente se n'è andata dalla spiaggia e la discoteca deve ancora riempirsi, e tu sei là ad osservare il tramonto, bevendo orrendi cocktail senza nome ed ascoltando Sometimes; poi il dancefloor inizia a riempirsi e parte Grand Illusion.
Miami Horror, Illumination, 2010: non sarà nulla di che, ma son sempre cinquanta minuti di ricordi di vita mai vissuta.
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