Micah P. Hinson è un giovane vecchio con lo sguardo acuto e l'aria spartana di chi capita in un bordello per caso. Ha la voce torbida e nera di un Johnny Cash punk, e le dita secche delle mani che sanguinano nervose sull'acustica-folk, a raccontar di drammi familiari, storie del Sud, passioni bruciate. Cose di vita amare o meno, cose che un tizio di ventisette anni ne ha viste anche troppe e tu non ci crederesti. A guardarlo, Hinson sembra quasi un Elvis Costello cresciuto nel Texas tra anfetamine, Jack Daniel's e arresti per vagabondaggio. Uno che può raccontarti che lei non c'è più, è scomparsa e forse non c'era mai stata prima a soppesarti strascichi e deliri del cuore; però capisci che Micah è sincero, non mente e racconta se stesso.

I suoi dischi sono come le (bellissime) copertine: antichi, eleganti, evocativi di mondi solo immaginati e perciò più veri del vero. Perché li cerchiamo affannosamente dentro i nostri tormenti, nelle cavità oscure delle umane miserie. E talvolta sono lì che ci aspettano. "And The Red Empire Orchestra" già dal titolo pretende, e ottiene, una diversa attenzione dal resto della piccola truppa hinsoniana. Una precisa varietà stilistica in luogo della rinnovata maturità espressiva dello smilzo autore. Produzione di John Congleton (Paper Chase) da nobile cantautorato e arrangiamenti scaltri, lucidi, preziosi. Sciolti e solitari come randagi nella piazza del paese il sabato mattina, mentre piove sull'indifferenza delle persone.

L'Orchestra Dell'Impero Rosso suona note di archi struggevoli verso il tramonto, e il songwriter texano riesce finalmente a traghettare il suo "violent country" in un pacificato cammino sulla via di casa. Dove magari l'aspettano la musa-compagna e un grammofono rugginoso (Come Home Quickly, Darlin'). Hinson abbandona languidamente la sua musica in classici ricami di banjo (When We Embraced), nella vulnerabilità delle confessioni da camera di "I Keep Havin' These Dreams", nel violino insinuante e lo scivolare d'arpeggi in Throw The Stone. Una morbida batteria e delicati archi si distendono nell'intima "Tell Me It Ain't So". Lo spettro di Roy Orbison incontra i Lambchop nella ballad nostalgica da crooner Cinquanta "Sunrise Over The Olympus Mons", corrosa nel finale da un'emotiva elettrica, e nel curioso impianto surf\country di "You Will Find Me". E un triste, dolce riverbero di elettricità illumina una stanza buia nella breve "The Wishing Well And The Willow Tree". Micah ora attraversa la lunga notte senza le vecchie paure (l'organo e i cori nel Dylan in fuga a Nashville di "We Won't Have To Be Lonesome"), l'unica preoccupazione che tiene al guinzaglio un'anima logora è "morire solo, senza averla cercata, senza averla conosciuta.."

Il lirico romanticismo di "Dyin' Alone" ci congeda tutti dal dolore della perdita, prende per mano Natalie Wood\Debbie nel commovente ritorno alla fattoria Jorgensen. La porta sull'uscio si socchiude lentamente, e fuori svanisce nel Mito la sagoma di Ethan Edwards, per sempre.

"I'm not afraid of the sunset or the rain, i'm just afraid of dyin' alone..And what would you find. And what would you sing. And what would you mean..I'm not afraid of the suffering or the pain, i'm just afraid of dyin' without findin' you.."

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