M. Cashmore, "Sleep England", Durtro, 2005.

Un vago, languido sentore di sfascio aleggia su codesto delicatissimo platter (ma i Platters erano negri, sebbene ben adusi al bon ton bianco). Al crepuscolo, le terre dell'occaso volgono a ciò che il fato destinò loro: anche alla inevitabile devoluzione delle stirpi di dominatori.

"Sleep England" è stato pubblicato dal finissimo polistrumentista albionico, ma misuratamente nazionalsocialista, M. Cashmore, già collaboratore di numinose figure del neofolk quali il D. Tibet (autore, con i suoi Current 93, del seminale "Thunder Perfect Mind" [1992: noi ne conserviamo in una teca eburnea la enigmatica edizione doppia] e del commovente, grandioso "Sleep Has His House" [2006]), il degenerato D. Pearce (inutile fare la lista delle fondamentali "releases" dei suoi DIJ) e la strega scozzese e corista R. McDowall, che ha attraversato con malizioso candore le derive estetiche del bubblegum rock, del gotico da cameretta e dell'intrattenimento postindustriale.

Siamo di fronte, nel caso di specie, ad un'operina neofolk da camera (meglio, da salottino neoromantico, ma assolutamente non "engagé") rilasciata nel 2005: quando ancora tutto era possibile . I toni sono smorzati, vagamente melò, su eterei tappeti di reveries aurorali, ed ambigue latenze: qui contano più i ridondanti silenzi che le note sussurrate, più i giochi delle cesure che le melodie appena conchiuse. Non siamo, ovviamente, sui livelli dei due "magna opera" di Cashmore, sotto il "moniker" di "Nature and Organization": l'eccelso "Beauty Reaps the Bloond of Solitude" (1994) ed il non cesellato, ma altrettanto sontuoso e forse più, "Death in a Snow Leopard Winter" (1998), recentemente riuniti in un meritorio lavoro di inconcusso recupero filologico. Scarna ma preziosa la confezione del "packaging" dell'album in questione, che noi raccattammo a Berkeley tra torme di sbandati e balordi di ogni risma: ad una copertina di motivo fiocamente floreale fa riscontro, all'interno, qualche sobria partecipazione, la lista delle tracce in caratteri classici e l'effigie da impeccabile asceta ortodosso di Cashmore. A dominare il viola e i suoi toni: una conferma della luttuosa, ma anche delicatamente trascesa, aura che avvolge le brume del cd: tutto giocato sui chiaroscuri resi tramite una sorvegliatissima chitarra elettrica e una sottilmente lancinante fisarmonica.

"Twilight Empire" riesce a dipingere un quadretto impressionisticamente immaginale in tre accordi, iterati con grazia tutta boreale. La luce del nord si stempera nelle fatidiche tempeste d'acciaio. Qualche riverbero effettato volge in malinconia la terrifica visione delle rovine di Occidente, ultima e più crassa manifestazione delle quali costituiscono le alluvioni di allogeni che appestano la nostra Europa: cui Cashmore si ribella, invitando ad una rivolta tutta interiorizzata. Il crepuscolo dell'impero deve essere trasmutato in occasione di incanto.

"I Killed Dusk": un titolo che è un programma marziale per élites metapolitiche. Ancora una chitarra pizzicata in modi trascendentali rilascia un refrain intimistico che contribuisce, con la protezione di un San Giorgio paganizzato "post eventum", alla soppressione del mefitico Dragone. Uccidere senza odiare, consigliava J. Evola: e Cashmore si fa esecutore del lascito del vate antimoderno, senza indugi di sorta.

"Dream England" è un ulteriore tassello nel mosaico delle stratificazioni neoromantiche. Una divagazione centrale quasi neoterica induce alla contemplazione della colossale disfatta. Il brano termina in sordina, quasi dovesse riprendere in una dimensione parallela: ciò che forse avvenne.

"Broken Seas" è il parto negletto dell'album: una sorta di "outtake" buttata là, senza molto senso ma con grazia tutta eucatastrofica. Thule ringrazia, da un anfratto che è limine ultimo di ogni afflato di speranza malriposta:

I took one Draught of Life—
I’ll tell you what I paid—
Precisely an existence—
The market price, they said.

"If We Knew Silence" è, fin dal titolo, una radicale e coerente dichiarazione di intenti. Tutto il brano si gioca tra un'alternanza quasi ludica tra tema centrale e pause, con queste ultime a dominare le inflessioni di una sorte inintelligibile. Se Dio è suono, Dio si rivela nel silenzio. Dio è silenzio.

"The Way They're Found" continua il metadiscorso sull'"ennui" scatenato da cogitazioni irrelate. Tema irrintracciabile: siamo di fronte a un esercizio di stile, che approssima al compiacimento del non conforme, contemplativo tormentoso del proprio esiziale scacco.

"Passed to Snow" potrebbe costituire il commento sonico di un romanzo di C. Bronte. Appena accennate le strofe di chitarra, ci si domanda dove sia, ancora una volta, il riff. L'architettura complessiva del pezzo è scheletrica, esangue: ma la restituzione filologica dello spettro sonoro è da applausi. Splendida apertura ermeneutica nel mezzo. Vi è una geniale sproporzione tra i mezzi, poverissimi, e il messaggio, abbacinante per ogni europeo di buon sangue.

"Eight White Stars" appare una orazione devota ad astri indoarii, dunque beneauguranti. Qui la contrapposizione frontale tra iperborei ed etiopi si fa esplicita, e tuttavia la solfa inizia a stancare, quantomeno musicalmente.

Appena affacciatosi il demone di Morfeo, ecco che spunta da un crogiuolo quasi irrisolto il capolavoro dell'album: "Sleep England". Si tratta, in una parola, di una elegia in morte di Occidente, di cui l'Inghilterra è figurazione problematica. Delicatissimo l'intro, che orienta al successivo, compunto refrain trasognato, iterato quasi all'infinito nel contrappunto chitarristico ben lumeggiato, quasi come in un'aria un poco demodé. Effetti da sole nero fanno da elegante chiosa alla traccia.

"Vernon Road" potrebbe apparire, nel titolo, una caduta nel malmostoso blues, la fatale musica dell'Avversario, ma --grazie agli Dei etnici del suolo e del sangue!-- così non è. Si prosegue nella ricerca di temi leziosamente scarni ed evocativi, cascate di note ombreggiate da salutari armoniche, ed accordi sempre, immancabilmente, ben sotto le righe. La clausola è impressionistica e improvvisa, ma non melensa.

"Keepsake" ci fa pensare a un dipinto di J. Shikaneder, il pittore praghese della malinconia, riflessa e restituita nei ponti e nelle bettole di Boemia. Una "climax" appena accennata corona un fraseggio spoglio, lineare e di gran gusto caucasico.

"Flowers Undes Snow" ci rammenta che la bellezza è spesso nascosta sotto coltri di precipitati abbaglianti, ma ingannevoli. Con tre note, Cashmore non dice nulla, ma lascia intendere tutto.

A sorpresa, per chi sa attendere il "kairòs", la ripresa finale del tema di "Sleep England" chiude questo sussurato, allusivo metadiscorso pressoché alieno da spurie sovrastrutture: ma che inclina alla quieta integrazione di tutte le angustie in una lucida tristezza, che slabbra e ricompone i nostri giorni di eterni sconfitti, nei penetrali del tempo:

The innocent brightness of a new-born Day

Is lovely yet;

[…]

Thanks to the human heart by which we live,

Thanks to its tenderness, its joys, and fears,

To me the meanest flower that blows can give

Thoughts that do often lie too deep for tears.

Carico i commenti...  con calma