Sono le 22.26. 

È una calda serata di Luglio e ho intenzione di guardarmi un film onirico, diverso, ma anche leggero. Per una volta ho deciso di tenermi lontano dalle pellicole orientali che adoro alla follia e così, inizio a ravanare tra la mia infinita collezione di DVD, in cerca di qualcosa che possa soddisfare le mie esigenze. I miei occhi scorrono tra i titoli, alcuni dei quali non sapevo neanche di avere, fino a soffermarsi su "Funny Games". Michael Haneke è il mio regista europeo preferito insieme a Lars Von Trier, eppure nonostante avendolo nella mia videoteca, non gli ho mai degnato uno sguardo. Forse per pigrizia, forse perché ero occupato a vedere altro, e dire che la paranoia post-videotape di "Caché-Niente Da Nascondere", le automutilazioni sadomachiste di "La Pianista" e le storie incrociate di "Storie" mi avevano rapito non poco. Mi avevano mostrato un talento visionario che non si fermava ai confini, che non aveva paura della censura o dei giudizi del pubblico. Haneke è insensibiele: non prova pietà per i suoi attori, ma li stupra, li violenta, straziandoli. Nonostante avrei preferito qualcosa di più allegro, infilo il DVD nel lettrore e mi raccolgo a conchiglia sul divano di pelle, mentre le prime immagini del film scorrono.

 Un'automobile che sfreccia, una famigliola che sta andando nella casa al mare per le vacanze estive. I due genitori si sfidano ad un quiz di musica classica e poi, di colpo, un'assordante musica hardcore inonda lo schermo, mentre il titolo del film compare all'improvviso, in rosso sgargiante.

Nonostante questa furia improvvisa, il film inizia quasi come una commedia americana, fino a quando arrivano due uomini vestiti di bianco che chiedono delle uova. Sembrano due giovani gentili ed eterei, ma in realtà sono tutt'altro. Rompono continuamente le uova attraverso apparenti e stupidi incidenti, mettono fuori uso il cellulare della famiglia e lentamente, con naturalezza prendono possesso della casa, seviziando lentamente le anime fragili che compongono la tranquilla famiglia. Tutto parte con un colpo, veloce, di mazza da golf contro la gamba del padre. Anche questa violenza viene cammuffata da incidente, ma il terrore inizia quando uno dei due sussurra, con la solita gentilezza e il solito sorriso "Scommettiamo che alle nove di domanimattina voi sarete tutti e tre morti".

E l'incubo inizia, senza più finire. I due ragazzi, interpretati sublimente da due agghiaccianti Aro Frisch e Frank Giering (altro che un Michael Pitt del piffero!). Alcune volte Firsch si rivolge allo spettatore, come se fossimo anche noi all'interno della trama.

Appena inizia la scommessa, il film si assolve in una violenza impalpabile: le torture sono fuori campo, con pochi schizzi di sangue, eppure l'effetto è molto più incisivo di una ventina di film sui morti viventi. Le urla di una superba e preziosa Susanne Lothar squarciano il silenzio della pellicola, mentre i due giovani si comportano come se stessero facendo le cose nel più naturale possibile.

Haneke confeziona un thriller-horror che mette i brividi, senza mettere in scena amputazioni, né mostri, fantasmi, nemmeno musiche assordanti: pervade il silenzio, il silenzio della normalità. Eppure, nella scena in cui il bambino fugge disperatamente in una casa disabitata e dall'oscurità si intravede l'uniforme candida di Firsch, che corre quasi come stesse saltellando, mi sono venuti i brividi. L'atmosfera si fa claustrofobica, tesa, crudele ed ecco che Haneke sfodera i suoi scheletri nell'armadio. Quando le cose per le vittime sembrano andare per il meglio (l'improvvisa e ingiustificata fuga dei due carnefici, la donna che riesce a difendersi con un fucile) ecco che l'incubo ritorna: come erano fuggiti i due ritornano, e nella scena in cui Anne riesce ad uccidere uno di loro, l'altro trova un telecomando e lo usa per riavvolgere l'azione.

Haneke vi prende per i fondelli: non c'è una salvezza, non c'è un lieto fine, c'è solo l'incubo, anche se è dalla parte dei buoni, la vittoria sarà dei cattivi.

Lunghi pianosequenza contornano il film, riuscendo a donargli angoscia e terrore, sino al finale di gelida freddezza.

Questo è il solito capolavoro di Haneke: cinico, crudele, sadico, ma anche estremamente poetico nella sua salsa violenta.

Ed ecco, che anche quando scorrono i titoli di coda, sulla medesima canzone noise-hardcore sentita all'incipit, il film mi resta impresso nella mente.

Ho la pelle d'oca e mi sembra sentire da parte a me la Lothar che con sussurro flebile e sottile dice "Non conosco nessuna preghiera".


Ore 00.12

Sto andando a letto, ma so che non dormirò.

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