Avete presente il film più disturbante che abbiate mai visto in vita vostra? Ecco. Dimenticatevelo. Perché, in quanto a shock, non varrà un briciolo di fronte a questo capolavoro di Haneke del 1989

E dire che non c'è sangue in "Il Settimo Continente". Neanche una goccia. Se già vi sentite vacillare alla prima ora, con quegli stacchi neri lunghissimi (cinque secondi) e con quelle claustrofobiche e continui dettagli che isolano i personaggi nel fuoricampo, allora vi invito a bloccare la visione. Perché non è ancora successo niente. Perché quello che accadrà dopo è l'apocalisse rinchiusa in pellicola. Decidete comunque di proseguire? Beh, io vi ho avvertiti. La vostra è una scelta. A vostro rischio e pericolo.
Haneke, anche nei suoi film meno riusciti, è un regista straordinario: rifiuta totalmente empatia, immedesimazione e sentimento, pone una distanza abissale tra spettatore e opera e lo costringe a farsi violentare con una freddezza inimitabile. Lo spettatore, dunque, davanti a "Il Settimo Continente" non potrà che chiedersi "ma che diavolo sto guardando?" perché è continuamente gettato fuori. Non c'è nessuna spiegazione logica, se non un insostenibile spleen, a giustificare ciò che avviene sullo schermo. Ma la cosa straordinaria sta nel fatto che, pur senza conoscere le origini del male, tu spettatore, quel male inconsciamente lo vivi eccome. La magia di Haneke sta nel farti provare la stessa nevrosi che i personaggi provano, allontanandoti da loro, impedendoti di capire cosa frulli nella loro testa e perché stiano facendo quelle cose. 
Ma cosa contiene questo film? Questo film contiene una famiglia: madre, padre e figlioletta. Tre anni di giornate meccaniche e al limite del robotico. Poi qualcosa si incrina, fino a spezzarsi. Detta così può sembrare il classico melodramma familiare un po' dolce e un po' amaro e invece potrebbe essere benissimo un horror: un grand guignol sulla tragedia dell'esistere e sul vuoto. Un'autoannientamento della famiglia che in un manifesto pubblicitario che ritrae un posto idilliaco dove riporre sogni e speranze (l'Australia) legge una scioccante epifania. Di più non posso dire. A quelli più temerari scoprire (o sentire, perché nulla si svela in Haneke) qual è il cuore dell'opera. Primo e stupefacente capitolo della così detta "trilogia della glaciazione" (il nome è tutto un programma) che comprenderà i successivi "Benny's Video" (1992) e "71 Frammenti Per Una Cronologia Del Caso" (1994) e primo lungometraggio del regista autriaco dopo una lunga militanza televisiva, "Il Settimo Continente" è un lavoro impressionante, soffocante, dove già è presente tutta la poetica dell'autore. Critica pesante alla borghesia e importanza del simbolo: ogni inquadratura, pur nella sua semplicità quasi documentaristica, racchiude complessità che atterriscono. Complessità presenti anche nella natura umana, così dedita al rigore eppure così incline al malvagio.
Un malsano viaggio verso la putrefazione, dove l'orrore non è amplificato ma al contrario racchiuso in una regia asettica e minimalista, interpretato con gelida austerità dai tre attori principali. C'è una scena meravigliosa: la famiglia si libera dei propri risparmi di una vita gettandoli nel gabinetto. Haneke ha detto: "Durante quella scena in molti avevano abbandonato la sala. Molti più di quanti lo avevano fatto per altre scene in altri film". Ormai è più scioccante assistere alla distruzione del materiale piuttosto che all'assistere ad un'uccisione. A visione ultimata, il silenzio. Ma il film continua a crescere dentro, terrorizzandomi.Con una violenza inaudita. 

 

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