Erika Kohut è un'insegnante di pianoforte presso il conservatorio di Vienna. Ad un'occhiata superficiale si direbbe una donna normale che conduce una vita mediocre, come tutte le persone normali. Divide un piccolo appartamento con sua madre, il cordone ombelicale ancora perfettamente illeso. L'anziana donna pretende di controllare la figlia in ogni singolo momento della giornata. Erika è la migliore creatura che abbia mai messo piede sulla Terra, una donna dalle mirabili capacità musicali, destinata ad emergere, ad essere una grande pianista. In virtù di questo imperativo, la madre di Erika le ha impedito di vivere la propria infanzia e giovinezza, ed ora Erika ha quaranta anni, non è una pianista di fama mondiale ma una comune insegnante, e manco tanto. Di notte, prima di ritirarsi sotto il tepore del lenzuolo che spartisce (Anche quello!) con la madre, Erika si immerge nel mondo dei peep show, diventa una squallida voyeur per coppiette indaffarate in frettolosi orgasmi. Di questo si sostanzia la sua vita. Arte, che gli altri non potranno mai comprendere, sua madre, della quale non potrà mai fare a meno, le perversioni che, insieme ad auto - procurate lesioni corporee, le permettono di sentirsi viva. Può un giovane allievo come Walter Klemmer sconvolgere questo equilibrio?

Presentato al 54mo festival del Cinema di Cannes, "La pianista", ottavo lungometraggio dell'austriaco Michael Haneke, suscitò grande attenzione della critica. Grand Prix speciale della giuria, miglior interpretazione femminile (L'immensa Isabelle Huppert che se la gioca con una matura Anne Girardot nei panni della tirannica madre), miglior interpretazione maschile (Benoit Magimel, sconosciuto ai più, una specie di Accorsi francese), insomma un tripudio. Però, diversamente da "Funny games", capolavoro del regista che ancora non ha perso il suo smalto, "La pianista" passa ora come una bella prova di un regista di culto ed è pian piano scivolato nei terrificanti meandri del cinema indipendente, quello che i signori del "il-cinema-mi-deve-fa-ridere" definirebbero come "pesante". Il discorso è lievemente più complesso, e sarebbe opportuno assumere come punto di partenza il romanzo sul quale si basa.

Difficilmente un'opera cinematografica basata su un romanzo riesce a dribblare la possibilità di un paragone. "La pianista", come molti altri prima e dopo, non ci riesce. E' il 1983 quando Elfriede Jelinek (Premio Nobel per la letteratura 2004) pubblica l'omonimo romanzo, una storia che desta scalpore e che in Italia ottiene un briciolo di risonanza perché passa per una sorta di romanzo pornografico. Ma pensiamo alla protagonista, Erika. Nel romanzo, che diversamente dal film può dilungarsi in una serie di excursus relativi alla giovinezza della donna, Erika è qualcosa di più che un groviglio di sentimenti opposti costipati in una figurina esile. Il suo rapporto con la madre è simile a quello di una vittima e il suo carnefice, effetto "sindrome di Stoccolma": la vittima subisce la pena dal carnefice, tenta di divincolarsi dal suo abbraccio letale ma quando c'è riuscita torna indietro in preda ai rimorsi. L'Erika della Jelinek esprime un disagio che va ben aldilà della dimensione individuale e si fa strumento per l'autrice di critica civile e sociale. Tramite la protagonista e le sue vicissitudini, si accanisce contro Vienna e i suoi miti, quello della musica classica in primis e sostiene "A Vienna non si affermerà nulla che non si sia già affermato altrove", smantella i meccanismi dell'industria pornografica fino a mostrarli in tutta la loro scabra vacuità. In tutto ciò, Klemmer si pone come l'elemento di novità che si insinua in un rapporto vecchio che, in accordo con le intenzioni dell'autrice, non riesce a dividere.

Il film batte una strada lievemente diversa. Haneke ritaglia il soggetto scartando ogni aspetto che non rimanga su un piano esclusivamente introspettivo e la pellicola diventa la storia di una nevrosi. In virtù di ciò, il rapporto madre - figlia si frantuma, gli atteggiamenti dittatoriali della vecchia sono visti come causa principale del disagio di Erika che tuttavia nel romanzo sono pienamente condivisi dalla stessa, come già detto. Del tormentato rapporto di questa innaturale coppia, dove madre e figlia si fondono in un tutt'uno, nel film non c'è più ombra e spicca la sola figura di Erika, magistralmente interpretata dalla Huppert. Restano i toni cupi ispirati dall'atmosfera tipicamente viennese, con la sua eleganza antica e maestosa contrastata dal brusco passaggio allo squallore dei locali frequentati dall'insegnante. Resta anche il personaggio di Klemmer, definito per antitesi con quello di Erika. Solare, intelligente e, diciamolo, un po' ingenuo, capace di considerare la liaison stretta con Erika solo alla luce dello stereotipo maestra - allievo. Ma Haneke, come qualsiasi regista meritevole di tale titolo, ci mette il suo (anche questa volta inconfondibile). Non lascia traboccare gli aspetti più macabri e sensuali, che incornicia in una struttura ben più articolata, riprende un tema a lui caro (visto nel già citato "Funny games") che è l'opposizione fra equilibrio esterno e disordine interno, la pulizia del viso e il sudiciume delle viscere e non fa si che lo spettatore non detesti neanche per un attimo la protagonista, terribilmente vorace di vita, teneramente inciampata nei propri passi.

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