Nel gennaio 1969, all'insaputa di milioni di fans sparsi in tutto il mondo, i Beatles stavano rapidamente correndo verso il precipizio. Troppe tensioni interne, troppe gelosie e litigi, troppi egocentrismi e manie di grandezza avevano minato irrimediabilmente la pop band più famosa che il mondo avesse fino a quel momento (e forse tuttora) conosciuto.

Poche settimane prima, erano terminate le lunghe e snervanti sessions di "White Album", in cui, oltre alla musica (e che musica!) erano finite col prevalere le nevrosi e le incomprensioni, al punto che Ringo Starr nel bel mezzo aveva salutato tutti, per poi, dietro alle suppliche in particolare dell'amico George Harrison, ritirare le dimissioni e rientrare. Quello che poteva sul momento sembrare un incidente privo di ripercussioni, rivelava in realtà che qualcosa si doveva essere rotto, che il cemento che teneva unito il gruppo si stava frantumando, se persino il più umile dei Fab Four, Ringo Starr, decideva di gettare la spugna. Tra le altre cose, i due leaders e amici di un tempo, John Lennon e Paul McCartney, a stento si rivolgevano la parola, il primo innamorato perso di Yoko Ono (la cui presenza non fece molto per calmare le acque, anzi) e ormai lontano anni luce dal pop del gruppo, il secondo a dir poco entusiasta sostenitore di qualsiasi idea che potesse dare ulteriore linfa vitale al complesso, spesso senza rendersi conto di eccedere la misura e di inimicarsi i compagni.

Fu proprio McCartney a proporre e a trascinare anche questa volta gli altri componenti, in realtà piuttosto recalcitranti di fronte all'ennesima stramberia di Paul, verso l'idea di un film. Non si sarebbe d'altra parte trattato della prima pellicola a riguardare i Beatles, ed erano trascorse poche settimane dall'uscita nelle sale del cartone animato Yellow Submarine, che fra l'altro come il suo predecessore (coi protagonisti in carne e ossa) Magical Mistery Tour era stato accolto con qualche storcimento di naso. Ma la parte più balzana del progetto era il contenuto che avrebbe dovuto avere il film: riprendere i Beatles mentre suonavano, componevano e incidevano in studio. Una sorta di documentario in presa diretta che immortalasse il processo creativo del gruppo. Inutile dire che già quest'idea di per sé per funzionare avrebbe necessitato di un gruppo coeso, disposto a giocarsi di fronte a delle telecamere senza un copione, dato che tutto si reggeva (o meglio doveva reggersi) sulla spontaneità e l'immediatezza dei rapporti personali e musicali; coesione che senz'altro non poteva essere avvicinata ai Beatles degli inizi del 1969. Ad ogni modo, Paul convinse gli altri a lanciarsi nell'avventura e contattò il giovane regista americano Michael Lindsay-Hogg, figlio d'arte e popolare regista di programmi musicali come Ready Steady Go!, davanti le cui camere era sfilata buona parte della British Invasion, e che aveva da poco curato uno special televisivo mai andato in onda degli amici/rivali Rolling Stones, il Rock'n'Roll Circus, e che forse anche per questo dovette apparire la persona più adatta per un'operazione simile.

Il 2 gennaio 1969, presso i Twickenham Studios di Londra i Beatles si ritrovarono per la prima volta per le riprese. E fin da subito iniziarono le difficoltà. Prima di tutto, ad eccezione di Paul, che gia in Magical Mistery Tour aveva dato segnali di incontrastato narcisismo, e di Ringo, che forse era dei quattro quello che si faceva meno problemi (e non a caso si dedicò per qualche tempo con discreti risultati al cinema), fu evidente che l'idea di suonare con una troupe per i piedi e le telecamere sotto il naso per tutto il tempo non faceva che aumentare esponenzialmente il nervosismo e la tensione; in secondo luogo, erano da poco terminate le session di un album e il materiale nuovo scarseggiava, figuriamoci poi quello di qualità (tenendo conto che ovviamente da questo punto i Beatles non potevano e non dovevano permettersi di sfigurare), e comporre nuovi pezzi in quelle condizioni piuttosto soffocanti non era certamente la soluzione più ottimale. Non è un caso che la pellicola mostri il gruppo provare più volte "Don't Let Me Down", "Maxwell's SIlver Hammer", "Two Of Us" e "I've Got A Feeling" (oltre a una serie di vecchi successi, loro come pure covers risalenti ai pionieristici tempi di Amburgo) senza particolare convinzione, esibendo sorrisi tirati e la chiara impressione di essere lì più per dovere che per convinzione.

Inevitabilmente, dopo pochi giorni la situazione precipitò. McCartney nel film inizia chiaramente a mostrare, quasi stesse veramente recitando un ruolo da copione, tutta la sua antipatia nel voler apparire la spinta propulsiva della band, facendo pesanti commenti sul modo di suonare dei compagni, in particolare con Harrison, che nell'unico momento di reale tensione immortalato nel film, risponde ai rimproveri di Paul "bene, vorrà dire che suonerò come tu vorrai, o se ti fa più piacere, non suonerò affatto". In un altro momento, Paul sembra quasi recitare l'omelia domenicale a John, esortandolo ad aver più fiducia nelle possibilità del gruppo, ricevendo per tutta risposta un eloquente silenzio. A dirla tutta, più che a suonare Lennon dà l'impressione di essere di gran lunga più interessato a stare con Yoko, onnipresente e sempre adorante l'oramai prossimo sposo, qualsiasi cosa faccia o dica. Invece delle frequenti battute di Paul, suonano molto più comiche le reazioni ad esse dei compagni, che non fanno nulla per nascondere il fatto di ridere più per esigenza che altro. Non c'è da stupirsi quindi che dopo una decina di giorni, George, in perfetto Ringo-style, mandi al diavolo tutto e tutti. Interrotte le riprese, seguirono un'altra decina di giorni di negoziazioni per farlo rientrare, negoziazioni con cui ottenne di portare con sé l'amico Billy Preston, celebre sessionman afroamericano responsabile delle parti di organo di tante mitiche incisioni di quegli anni, oltre alla garanzia di sveltire il più possibile le parti in studio.

E qui arriviamo al tanto famoso finale: l'ultimo concerto dei Beatles. L'ultima genialata di McCartney era stata quella di pensare di concludere il film con un'esibizione. Premesso che organizzare in tempi brevi un concerto dei Beatles non era cosa da poco, e che il problema principale era trovare il luogo adatto (Lennon col suo consueto spirito propose di suonare in Africa, o perché no, in un manicomio!), la veramente geniale idea escogitata fu quella di suonare sul tetto degli studi di registrazione Apple: dopo delle prove (ovviamente riprese) all'interno, dove Paul sembra con la giacca nera vestito più per un funerale che per un concerto, il gruppo sale sul suo ultimo palco, quasi un patibolo, di fronte ad un pubblico improvvisato di persone in pausa pranzo che si affacciano dalle finestre di fronte o si arrampicano sui tetti (se lo fanno loro, perché non lo possiamo fare noi?si saranno detti), mentre la strada viene letteralmente invasa dai fan e dalla gente comune colta di sorpresa dall'udire i Beatles suonare a tutto volume dal tetto, con qualche sorriso e qualche comprensibile fastidio dei solerti vigili londinesi. Il tutto finisce col sembrare un vero e proprio rito funebre, un ultimo, senz'altro non voluto nè immaginato, estremo saluto, da parte di un pubblico al quale la musica dei Beatles aveva davvero cambiato la vita, a quattro ragazzi ormai maturi che sembrano essersi accorti loro stessi di non credere più nella loro unione, tante e troppe volte mitizzata ma in realtà effimera come ogni umana cosa. A non essere effimera, sembra dirci il film, è solo la loro musica, che nulla e nessuno potrà cancellare. Lasciate che sia.

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