Manifestarsi dopo un titolo come "Heat" (1995), probabilmente una delle massime vette dell'action degli ultimi decenni, è un fardello non da poco, particolarmente quando il film che segue viaggia su binari differenti. "Insider" è un dramma d'inchiesta, una sorta di reportage giornalistico e documentaristico esplicitato nell'utilizzo reiterato della camera a mano.
La sesta fatica per il grande schermo di Michael Mann nacque da un'articolo di Marie Brenner apparso su "Vanity Fair" e che fece scandalo negli Stati Uniti: una delle grandi multinazionali del tabacco, la Brown & Williamson, fu accusata di utilizzare prodotti chimici nella lavorazione del tabacco. Jeffrey Wigand (interpretato da uno dei Russell Crowe più convicenti di sempre), scienziato della società, su pressione del giornalista Lowell (Al Pacino), decide di rivelare gli oscuri segreti della B&W al programma della CBS "60 Minutes".
Il Michael Mann di "Insider" è molto più compassato del solito e dirige proseguendo sul ritmo lento che era tipico delle "pause" di Heat. L'atmosfera quasi sospesa, estremamente enfatizzata dalla splendida fotografia di Dante Spinotti, serve ad incastonare una storia di uomini soli, persi nel chiuso di uffici asettici, l'opposto dello "spazio" metropolitano che Mann ha più volte portato al cinema. E' solo, Jeffrey Wigand, nell'affrontare quello che diventa un vero e proprio "rito di passaggio" verso la liberazione da un peso che gli ha portato via sua moglie. E' solo anche Lowell Bergman, giornalista che ha il dovere di raccontare la verità. "Insider" diventa così un'opera di disvelamento, un film che mette in scena la necessità di un'informazione libera e la potenza "eversiva" di quei mass media che veicolano in modo sostanziale l'opinione pubblica. Un concetto che Lowell marchia a fuoco con la frase "la stampa è libera...per chi la possiede". Il nemico è interno e va combattuto. La necessità tutta a stelle e striscie di cercare un "nemico esterno" è totalmente ribaltata nel film di Mann: questa volta l'avversario è tra noi, nelle nostre case (il proiettile nella cassetta della posta). Per vincere occorre raccontare la verità, ad ogni costo, anche contro i grandi giochi di potere degli organi di informazione.
Lontano dalle pulsioni action di film del passato, "Insider" è ad oggi un unicuum nella filmografia di Mann, il suo film più intimista e "ragionato". Questo non impedisce al regista di Chicago di lanciarsi nel "terrorismo compositivo" degli scavalcamenti di campo, funzionali ad esprimere quel senso di insicurezza e smarrimento che è proprio dei due protagonisti. Mann utilizza lo spazio per rendere insignificanti gli uomini, smarriti nell'oceano o in campi da golf silenziosi e deserti. Ogni inquadratura di Michael Mann serve a costruire un'intelaiatura intorno ai personaggi in una proliferazione di primi piani che trova sublimazione nel "sinthomo manniano", la ripresa di profilo sulla spalla destra dei personaggi, tema ricorrente nel futuro cinema di Mann. Attraverso questo espediente il cineasta americano azzera la distanza emotiva tra spettatore e figura filmica (Wigand) e ci mostra esattamente ciò che vede anche Russell Crowe. E' l'architettura visiva e compositiva di un film che non banalizza nessuna sequenza: se nell'esordio cinematografico "Thief" (1981), Mann utilizzava il ralenti per enfatizzare la violenza (alla maniera di Peckinpah, uno dei suo maestri), in "Insider" l'accorgimento serve a scolpire lo sguardo di una figlia verso un padre finalmente "libero" e che si rispecchia nella sua stessa immagine alla tv.
Le scelte registiche plasmano un film-fiume che Mann gestisce con la solita perizia tecnica, attento ai minimi dettagli. Lo schema filmico fornisce a Mann le risposte per dar vita ad un'opera che entra ed esce da vari generi, ma che ha soprattutto la forza di raccontare due personaggi opposti e complementari, sulla scia dello stesso "esperimento" di "Heat". Pellicola multiforme, "Insider" rimane un'opera quasi a se stante nella filmografia del regista, uno dei suoi capitoli più "posati" e autoriflessivi. Un altro tassello di quel coerente mosaico estetico, ancor prima che tematico, che Michael Mann porta avanti da anni e di cui l'ultimo "Blackhat" ne è l'ennesimo esempio.
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