Nato Matti Fagerholm, Michael Monroe rappresenta la quintessenza della rockstar perdente ma mai doma, nel suo continuo riproporsi oggi come trenta anni fa con lo stesso look glam, la stessa attitudine e la stessa caparbietà.

Questo nonostante la solita trafila di disgrazie abbia costellato la sua esistenza sin dai tempi dei gloriosi Hanoi Rocks.

Questo suo quarto album solista lo immortala in un momento di transizione, dopo uno stop forzato causa una frattura dell'anca e prima della reunion degli Hanoi Rocks (2002) e della morte della sua compagna e coautrice dei brani, Jude Wilder (2001).

Il cantante si riprenderà dalla tragedia con una serie di grandi album (solisti e firmati Hanoi Rocks) fino ai giorni nostri, passando spesso in Italia ed inondando i palchi con spruzzi di mascara, sudore e saliva come solo chi è stato sotto il palco come il sottoscritto può sapere.

Questo preambolo per dire che "Life Gets You Dirty" alla fine è il solito, onesto disco di rock sporco e diretto che non rappresenta certo uno degli apici della carriera di Monroe.

Un indizio del suo valore medio lo da anche il fatto che due dei momenti migliori siano le cover di "Little Troublemaker" (Ian McLagan) e "Self Destruction Blues" (Hanoi Rocks) e che la sola ballad del platter (di solito uno dei punti di forza del repertorio del cantante) sia "I Send You Back", il punto più basso toccato forse nella sua carriera.

Per fortuna oltre alle cover ci pensano alcuni brani a risollevare il morale un pò abbacchiato: il sax trascinante con sè chitarre e batteria di "What's With The World?" e la "classica" "Since When Did You Care?", che puzza di Hanoi Rocks lontano un miglio e che nel testo ci ricorda di quale sopravvissuto del rock abbiamo di fronte.

Per il resto ordinaria amministrazione, pezzi che uno come Michael Monroe può scrivere in pochi minuti senza impegno, tra uno sputo e l'altro ("Always Never Again"), immerso come è il suo talento tra istinti punk'n'roll, striature glam ed accenni blues. Con l'aggiunta di un esperimento rap come "Not Bad For A White Boy", che, stranamente, convince con la sua cattiveria e variopinta sporcizia.

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