Della favola spezzata degli Hanoi Rocks è cosa risaputa, sia del maledetto incidente causato dal cantante dei Mötley Crüe, Vince Neil, che portò alla morte del batterista Razzle, sia del conseguente scioglimento nel 1985, con i vari membri del gruppo che presero differenti strade più o meno tortuose.


Michael Monroe per molti, così come per il sottoscritto, ha incarnato ed incarna tuttora il frontman rock anni '80 per eccellenza. Perdente dotato di carisma e colmo di attitudine al punto giusto.

Ogni suo album ha sempre qualcosa da dire, sia nei dischi solisti che nei vari progetti estemporanei (vedi Demolition 23), sia quando, a inizio secolo, è tornato a sfornare tre lavori con i rinati Hanoi Rocks.

"Whatcha Want" è il suo quinto disco, il terzo nel giro di soli tre anni dopo un silenzio discografico che ha attraversato tutti gli anni '90.

Qui la quasi totalità delle canzoni sono delle cover, solitamente poco famose, che il cantante indossa alla perfezione ammantandole spesso di una patina luccicante grazie ad una voce dalle mille sfumature e tonalità.

Nelle poche tracce inedite il cantante riesce, anche se non sempre, a colpire nel segno, magari giocando sul sicuro come in "Stranded" o "Shattered Smile", che avrebbero potuto appartenere al repertorio degli Hanoi Rocks.

Nelle cover azzarda maggiormente, ad esempio quando tira fuori dal cilindro "Telephone Bill's All Mine", un brano dell'artista finlandese Dave Lindholm, presentato in stile "ballata" rock anni '80.

Tra tutte la spuntano comunque le due più planetariamente conosciute: "What Love Is" dei Dead Boys, del compianto amico Stiv Bators, spesso omaggiato nei dischi del cantante finlandese e qui pronta a sputare tutta l'attitudine punk di Monroe e soci; e "Hey, That's No Way To Say Goodbye" di Leonard Cohen, con l'accorata interpretazione di Michael Monroe (al tempo da poco vedovo della moglie Jude Wilder) che accompagna l'ascoltatore alla chiusura del disco.

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