Se si riesce ad immaginare la suggestiva, ipotetica fusione (corredata di irresistibili accenti caraibici) degli stili pianistici di Keith Jarrett, Chick Corea ed Herbie Hancock, si avrà una prima, e nondimeno parziale idea di come "suoni" la musica di Michel Camilo. Se si parla di Latin Jazz contemporaneo, di Fusion a tinte esotiche e ritmiche afro-cubane immerse nel "mood" del migliore Swing anni '50, non si può non menzionare questo geniale pianista dominicano cui, negli anni, si sono dovuti inchinare persino il pubblico esigente del Festival di Montréal e i newyorkesi più snob della Carnegie Hall: troppo talento, troppo gusto, troppa tecnica e, soprattutto, classe da vendere, fin dallo splendido esordio di "Why Not?" del 1985 che impone il nome di Camilo all'attenzione della critica internazionale e non solo: musica straordinaria per i più raffinati palati jazzistici, e ascolto irrinunciabile per chiunque desideri apprezzare lo stile e l'eleganza di sonorità levigate ma non spassionatamete patinate, di composizioni traboccanti di impeto e vivacità ma anche di risvolti agrodolci e sapori nostalgici, meditativi, sognanti. Tutto ciò sa convivere e integrarsi alla perfezione nell'arte (e nel mirabile "crossover" stilistico) del titolare di un'opera che non faccio fatica ad inserire tra le pietre miliari della nuova Jazz-Fusion "esotica" degli anni '80.
Talento precoce, molto precoce, quello di Michel (proveniente da una famiglia di musicisti), che a soli sedici anni entra a far parte dell'Orchestra Sinfonica Nazionale della Repubblica Dominicana. Ugualmente debitore del Ragtime più classico e del Jazz modale anni '50/'60, il suo stile pianistico subisce una decisiva evoluzione nel corso di una lunga permanenza di studio e ricerca negli Stati Uniti, a New York in particolare (città che di fatto rappresenta la sua seconda casa). Il debutto ufficiale è al fianco di un monumento del livello di Tito Puente, che lo vuole nella propria formazione a partire dal 1983, esattamente due anni prima di questo epocale debutto (nel frattempo anche il fiatista cubano Paquito De Rivera l'aveva invitato a far parte del proprio ensemble): debutto registrato in febbraio alla guida di un formidabile sestetto di strumentisti, tra le figure più rilevanti del nuovo Jazz di quegli anni: sezione ritmica a dir poco inarrivabile, con Dave Weckl ed Anthony Jackson, Lew Soloff alla tromba e Chris Hunter al sax, e due percussionisti come Guarionex Aquino e, soprattutto, l'onnipresente Sammy Figueroa. Ma è sul grande Dave Weckl che sarebbe opportuno spendere alcune parole: qui giovanissimo, e ad una delle sue prime session in assoluto, il batterista sa districarsi con disinvoltura fra divisioni ritmiche afro-cubane di incredibile complessità, mettendo in mostra agilità esecutiva e soprattutto quell'incomparabile "feeling", quel gusto unico nell'esecuzione estemporanea (con tanto di "ghost notes" e abbondanti, sopraffine micro-variazioni) che sarebbe divenuto il suo marchio di fabbrica: sia con Mike Stern, sia con la Electric Band di Corea, sia soprattutto nei suoi album solisti a cominciare da "Master Plan", capolavori di ricerca e cultura musicale fuori dal comune; molto, nella riuscita di questo album, si deve alla perizia strumentale sua e del resto della band, che Camilo ha saputo assemblare con lungimiranza e perspicacia, tenuto debito conto delle caratteristiche dei singoli.
A legare il tutto è il tocco pianistico del leader (e non poteva essere altrimenti) fra geometrie e asimmetrie, delicati ricami e passaggi d'insolita verve "percussiva", furiosi e frenetici fraseggi sincopati e linee più rilassate, romantiche, figlie della tradizione musicale d'appartenenza. L'iniziale "Just Kiddin'" è uno sfolgorante turbinio "carnevalesco" di suoni e colori, percussioni e virtuosismi strumentali in rapida successione: a sorprendere è l'affiatamento fra i musicisti, ma anche gli interventi contestuali del "background" percussionistico ad enfatizzare gli assoli di Soloff e, soprattutto, di Hunter, decisamente votati al registro acuto, prima di lasciar spazio al piano di Camilo e alle sue variazioni estemporanee su canovacci armonici marcatamente caraibici (velocità e precisione impressionanti, e ascoltatore inevitabilmente coinvolto al massimo grado). "Hello & Goodbye" parte in sordina ma si sviluppa presto sui canoni di un Samba intrigante, dai dettagli raffinati, con un assolo del leader di quasi tre minuti e una lunga parentesi riservata alla tromba di Soloff, prima della chiusura incaricata di riprendere il tema iniziale in chiave "orchestrale". In "Thinking Of You" si toccano i vertici del romanticismo, componente essenziale dell'arte di Camilo, specie nella delicata ma intensa introduzione eseguita dal pianista in totale solitudine, in un vorticoso saliscendi di splendide scale armoniche inframezzate da passaggi più posati, più riflessivi: dopo due minuti e mezzo circa fa il suo ingresso la soffusa ritmica di Dave Weckl a creare un'atmosfera insolitamente misteriosa e "sospesa", prima che il pezzo prenda corpo, ancora fra improvvisi "picchi" e contestuali "avvallamenti", sulla base del maggiore sostegno del basso di Anthony Jackson; nove minuti di puro incanto, senza il benché minimo calo di tensione. La lunga "title-track" è incaricata di trasportare nuovamente l'ascoltatore fra ritmiche frizzanti e movimentate, per merito soprattutto degli eccezionali intermezzi di Dave Weckl e della creatività sconfinata del pianista, più che mai disposto a percorrere itinerari sempre notevoli per varietà e novità. Sulla stessa linea si muove "Not Yet", con supersonici fraseggi di basso elettrico e un bel solo del sax di Chris Hunter, mentre la conclusione di "Suite Sandrine", come facilmente desumibile dal titolo, è riservata a un composito collage di temi dedicati all'improvvisizione, qui più che mai vicina ai canoni del Jazz modale. Una chiusura in perfetto stile.
Se vi ho convinto, non perdete allora l'occasione unica di confrontarvi con questo gioiello di gusto e stile con pochi eguali: le cinque stelle sono a dir poco pleonastiche. Buon ascolto.
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