Non mi sono mai considerato un grande amante del cinema. La mia filmografia, seppur piuttosto ampia, ruota molto (almeno quella che reputo più "di valore") attorno a uno stesso genere/argomento/concetto di fondo, e tre/quattro sono i film che, tra quelli in mio possesso, giudico (almeno per me) imprescindibili e necessari, fedeli amici di momenti un po' così, di baratro pericoloso tra la noia, l'apatia e la malinconia (spleen?). Uno di questi è "L'Arte del Sogno" (Michel Gondry, 2006).

Mi è sempre piaciuto considerarlo come la materializzazione di tanti miei pensieri, come la trasposizione cinematografica dei sogni, degli incubi, delle angosce di un animo romantico e sognatore, che veleggia sempre in bilico tra realtà e immaginazione, tra reale e utopico, e che alla fine cede, esausto, a una delle due facce della medaglia (allo spettatore lascio capire quale).

Non a caso questo film mi affascina così tanto: il regista è lo stesso di "Eternal Sunshine Of The Spotless Mind" (ignobile la traduzione italiana del titolo), il secondo dei capisaldi cinematografici da me citati in apertura: stesso impianto onirico, stessa visionarietà e incredibile capacità di fondere due mondi che da sempre cerchiamo di tener distinti, almeno da svegli (per rimanere sani), epiloghi con diversi tratti in comune, ma stessa voglia di fondo, da parte del regista, di scandagliare la materia intangibile che regola i nostri pensieri quando dormiamo.

Stephane è un giovane franco-messicano che, alla morte del padre, decide di raggiungere la madre a Parigi. Si trasferisce in un appartamento di sua proprietà, dove incontra la sua vicina di casa, Stephanie. Non è subito colpo di fulmine, almeno non per lui, inizialmente più interessato all'amica di lei, Zoe. Solo dopo inizia a prendere atto di cosa sta nascendo tra lui e la creativa vicina, giusto per dare il tempo allo spettatore di familiarizzare un po' con la particolare abilità di Stephane. Il giovane ha problemi nello scindere sogno da realtà: i due mondi si intersecano costantemente nella sua ottica, sogna di essere sveglio e sogna a occhi aperti. Ciò distorce non poco il suo punto di vista sulle cose, ma lo fa in maniera goffa, infantile (nel senso buono) e fiabesca.

Nel sogno il ragazzo idealizza la sua storia con Stephanie: i due nella realtà hanno pensieri comuni, vicinanza di idee, ma come spesso accade vedono il loro rapporto in maniera diversa (l'eterno contrasto amore-amicizia). E' proprio nell'onirico che il ragazzo si rifugia, è lì che realizza, in un mondo a lui congeniale, la sua vita felice con la ragazza amata. Un universo, quello di Stephane, fatto di giocattoli dalle sembianze rassicuranti, palazzi di cartone che, al suo passaggio, si ergono magicamente come nei libri per bambini (dove, quando apri una pagina, le figure si alzano e diventano in rilievo), omini di plastilina che sciano su montagne di cotone, fiumi di cellophane e pony giocattolo.

Il contrasto tra sogno e realtà stride fortemente man mano che ci si avvicina al finale della vicenda: nel mondo "vero" lavorativo il ragazzo ha successo (merito dell'influsso della ragazza, che lo aiuta a credere in se stesso e a superare i suoi complessi), ma è la vita privata che scivola, pian piano, in un buco nero, dal quale non riemergerà più. Tutto, alla fine, viaggia sul filo del fraintendimento, e le ultime scene sono anche le più toccanti, con l'ultimo dialogo tra i due che, ne sono certo, ricorderà a tutti almeno un momento nella propria vita in cui si sono trovati nella stessa situazione.

Il finale poi, silenzioso (con solo lievi e toccanti note di pianoforte in sottofondo) ha dell'incredibile: così reale nel trasmetterci la sua malinconia, allo stesso tempo fiabesco ma anche così amaro.

Il film è delicato, tenue, fatto della stessa materia di cui sono fatti i sogni: sfugge alle interpretazioni, lascia intravedere scappatoie, ma alla fine, quando i titoli di coda scorrono, ti ritrovi come alla mattina quando suona la sveglia, che a forza ti strappa dal tuo mondo ideale che ti stavi immaginando. E lì rimani, seduto sul letto, con lo sguardo fisso nel vuoto, per alcuni secondi lunghi ore, nel quale cerchi di dare un senso a ciò che hai appena visto/vissuto, cercando di trarre spunti utili per migliorare una realtà che, ahimé, è sempre più amara di quello che ci vogliono far credere.

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