L'infanzia è una ferita che impieghiamo tutto il resto della vita a rimarginare. Questo è il succo della questione. Quel periodo magico, ovattato, innocente che tutto contribuisce a strapparci via in maniera traumatica; quello stralcio d'innocenza originale, di vera fantasia, di amore puro, d'inconsapevolezza che ci viene portato via per lasciare spazio al mondo «vero», al mondo «serio», al mondo «adulto», questo è il punto.

Così siamo costretti ad abiurare, a rinnegare l'orsacchiotto, ad abdicare dai puzzle; addio, vecchie filastrocche, amate copertine di fumetti ingialliti; addio canzoni degli alpini cantate dalla mamma per addormentarci. Benvenuta realtà arida, senza sogni, degli adulti.

Ma quel bambino ci rimane dentro, siamo noi a conservarlo, fortemente ancorato alle nostre vene, ai nostri nervi, al nostro cuore. E basta recuperare i vecchi fumetti, mai smarriti, per scioglierci di nuovo di commozione, per abbandonarci alle lacrime - dolcissime, sacre lacrime - per tornare, anche solo fingendo, a quell'originale sincerità. Ciò che abbiamo amato, anche solo per un secondo, con quella sincerità è qualcosa da tenere stretto, da non abbandonare mai.

Autobiografico, senza dubbio: gli episodi riportati sono realmente accaduti e, tuttavia, la realtà è distorta iperbolicamente - tende all'esagerazione, ad ingigantire determinati particolari trascurandone altri - come se fosse osservata con gli occhi di un bambino, ma raccontata dalla penna di un adulto.

Commovente: affrontare questa lettura non è cosa facile, come non lo è tutto ciò che va a scandagliare quel genere di passato che per noi rappresenta uno schock, un trauma,  una frattura. Quella linfa aurorale - quella linfa VIVA - che è la fanciullezza va piano piano coagulandosi, sublimandosi, sclerotizzandosi nella personalità dell'uomo adulto: questo è lo scelo, questo è il danno, questo è il tradimento.

Michele Mari, strepitoso scrittore contemporaneo, finissimo letterato, dottissimo professore, si getta a capofitto in uno dei temi più delicati dell'essere umano, sondando l'origine di quella ferita, andando a disseppelire quell'unico momento di felicità dell'esistenza. Non c'entrano i fanciullini pascoliani, come egli stesso ricorda. Si tratta di scavare, sporcandosi le mani fino al gomito, dentro di sè, nella carne, nel sangue. Ed egli lo fa con il suo stile inconfondibile: estremamente diretto e conciso, ma al contempo profondo e sconvolgente, Mari ci regala undici racconti brevi, undici perle indimenticabili di commozione. Limpida nel trattare gli argomenti, la sua penna si fa più aulica, colta, difficile quanto più il tema trattato lo tocca da vicino, donando al lettore pagine di straordinaria bellezza. Potete star sicuri che incappare in un latinismo o cominque in un arcaismo significa anche scivolare in quelle zone più viscerali e intime dell'autore. Paradossalmente, laddove la lingua si fa più difficile, proprio lì si trova il vero, autentico Michele Mari.

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