Era un Farren particolarmente deluso (nonché in polemica col mondo, ma non era una novità), quello che alla fine del '69 entrò in studio per mandare agli archivi il suo sprimo scazzo solista. Da poco era rientrato a Londra, di ritorno dall'ultima tournée americana dei Deviants, ma le cose non andavano per niente bene. La band non la sentiva più sua, i giorni freakettoni della Swingin' London in cui aveva visto la luce quella scheggia di anarchia pura che fu "Ptooff!" sembravano lontani un secolo, l'Inghilterra musicale viaggiava verso ben altri lidi sonori. E soprattutto: non era per niente soddisfatto di come suonasse l'ultimo album partorito con i suoi: quel "Deviants n.3" con - in copertina - la provocante e ambigua suora intenta a succhiare il suo ghiacciolo. Quel disco non gli era andato giù, per tutta la vita sarebbe stato la sua spina nel fianco: "coi primi due ci eravamo divertiti, adesso ci siamo messi a fare musica... una via di mezzo fra Led Zeppelin e Stooges".
E suonare come gli Stooges (dico io, nel '69! E parliamo pur sempre degli Stooges!) non interessava MINIMAMENTE a questo Mostro dell'underground londinese che ci ha lasciati lo scorso luglio. Che fosse più hard o più garage, tutto ciò contava ben poco: per lui, quelli non erano più i Deviants. I Deviants erano il caos, la rivolta armata; usare le chitarre alla stessa maniera di fucili mitragliatori, spaccare tutto, rompere le vetrine e saccheggiare i supermercati ("Let's Loot The Supermarket", era l'invito contenuto in "Disposable"). Ma il '68 era passato, ormai.
E come se non bastasse, c'era quel contratto di 3 album firmato con la Transatlantic, che a Mick stava comodo come un cappio al collo. Uno l'aveva già inciso - il terzo Deviants, per l'appunto. Ma dove trovare la rabbia e le motivazioni per vomitare non uno, ma DUE 33, con l'umore a terra e l'ispirazione che scemava? Bel dilemma. E fu così che l'agitatore-Farren iniziò a "progettare" (ma quale progetto...? Diciamo "progetto" per semplice convenzione) la sua prima uscita in proprio senza avere la benché minima idea di come riempire 40 minuti di solchi e poco più. Poi però, QUALCOSA venne fuori. E fu proprio quel qualcosa fatto contro-voglia, solo abbandonandosi agli umori del momento, a rivelare l'essenza del Farren più psicopatico e inclassificabile che si poteva immaginare.
"Mona, The Carnivorous Circus". E a metterla in questi termini, sembrerebbe facile facile. "Mona" di Bo Diddley ad aprire e a chiudere, e un lungo sproloquio di strumenti, improvvisazioni e versacci a riempire quel che sta in mezzo. E a far da spartiacque: "Summertime Blues", Eddie Cochran - quella di Who, Blue Cheer, Marc Bolan e decine e decine di altri rockers d'ogni tempo. Ma nel concreto, l'ascolto di questo "circo carnivoro" è tutto meno che una cosa facile: "ero completamente fumato e fuori di testa durante le registrazioni, ho fatto TUTTO a modo mio..." - e infatti, tutto sa di esaurimento nervoso, a riascoltarsi "Mona". "Musica" acida, distorta, delirante, per giunta deformata e alterata da assurdi copia-incolla piazzati qua e là, tanto per rendere l'insieme ancora più sconcertante; per la cronaca: rumori vari, estratti di comizi politici e lunghe sezioni di "spoken word" fatte non di poesie recitate, ma... di interviste a un membro degli Hells Angels e a Steve Peregrin Took dei Tyrannosaurus Rex.
E così, all'alba dell'anno di "Atom Heart Mother", prende forma un'idea di SUITE (beh, sarebbe così superfluo virgolettare che non virgoletto nemmeno...) che se ne sbatte di progressismi e barocchismi vari, e che di contro ritorna all'improvvisazione e al primitivismo rock'n'roll - issando alta la bandiera del PRIMATE per eccellenza del Rock delle origini: quel Bo Diddley che con i suoi ritmi tribali e scimmieschi aveva ispirato uno stregone psichedelico come John Cipollina sui sentieri dell'acid-trip totale.
In studio fanno la voce grossa geniacci del calibro di Twink (poteva mancare, proprio lui?) e quel John Gustafson dei Quatermass che avremmo ritrovato nei Roxy Music e nella Ian Gillan Band. Uno dei miei preferiti tra i bassisti inglesi, un tocco inconfondibile. E Paul Buckmaster al violoncello (!) sul frammento finale di "Mona" ("The Whole Trip", si bada a specificare...), tanto per vincere una scommessa: dimostrare che, in qualche modo e non si sa bene come, anche Béla Bartòk e Bo Diddley si possono incontrare. E poi lunghissime jam di funk inacidito, wah-wah hendrixiano e basso che pompa divagando su un accordo unico per minuti. E mantra drogati, rantoli animaleschi, cantilene estenuanti, blues iper-distorti come quelli del "cugino" Edgar Broughton. E persino passaggi acustici, parentesi "western" stile-"Calvary" dei Quicksilver sulla seconda facciata: una finestra sulla California dell'epoca.
Ma tanto, a che serve sbrodolarvi addosso tutte queste parole, quando magari avete già smesso di leggere e non avete resistito alla tentazione di andarvi a sentire COME SUONA, tutto ciò...? E allora mi taccio.
Come...? Mi chiedete di dare un voto? Come se il qui presente fosse un Disco classificabile con un numeretto...?
Orsù, non è bello come scherzo...
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