Quando acquistai quasi casualmente questo album alla modica di cifra di 5 euro, mai mi sarei lontanamente immaginato di ritrovarmi tra le mani un altro fondamentale tassello della musica Rock “made in USA” di fine anni Sessanta: infatti, questo album intitolato Super Session, pubblicato nell’agosto 1968, rappresente indubbiamente la “summa” di un altro di quei filoni musicali che spiccherà il volo in questo periodo: il cosiddetto Blues Revival.


Super-Session


L’album è suddiviso in due facciate, la prima delle quali vede come protagonisti pressoché inconstrati i personaggi di Al Kooper (New York, 5 febbraio 1944), rinomato ed apprezzatissimo tastierista / cantante / polistrumentista / produttore, sia collaboratore per conto di artisti di primissimo rango come Bob Dylan nel fondamentale suo album del 1965 Highway 61 Revisited sia scopritore di nuovi talenti (in primis quel Carlos Santana appena dicianovenne, proveniente dalla sempre viva fucina californiana, tenuto ufficialmente a battesimo nel pezzo Sonny Boy Williamson dell’album Live Adventures of Mike Bloomfield & Al Kooper del 1969), nonché membro dell’ensamble blues Blood, Sweat & Tears e del chitarrista blues Mike Bloomfield (Chicago, 28 luglio 1943 – San Francisco, 15 febbraio 1981), proveniente da quel “melting pot creativo” quale era la Chicago di metà anni Sessanta, sede principale del già menzionato “Blues Revival”, anch’egli rinomatissimo sessionman per conto di Dylan (sempre inHighway 61 Revisited) e del bluesman americano Paul Butterfield (da cui la famosa The Paul Butterfield Band) e membro di spicco del supergruppo The Electric Flag, da cui proviene, tra l’altro, il bassista Harvey Brooks (altro importante collaboratore di Dylan medesimo) con, infine, il giovane misconosciuto batterista Eddie Hoh.


Mike-Bloomfield-and-Al-Kooper


Questa prima parte è dunque contraddistinta da una “guerra” tutta in chiave strtumentale tra le tastiere e gli arrangiamenti di fiati di Kooper e la chitarra sempre rovente ed affilata come una katana di Bloomfield, già a partire dall’iniziale Albert’s Shuffle che evidenzia dal suo andamento equamente spartito tra i “contendenti” questo aspetto. Stop è un’ottima cover blues di un tale J. Ragovoy, così come la successiva Man’s Temptation di Curtis Mayfield, in cui risalta soprattutto la voce dell’eclettivco Kooper. Il miglior pezzo strumentale in assoluto della prima facciata è, però, la successiva His Holy Modal Majesty, nel quale lo scontro “all’arma bianca” tra le tastiere di Kooper e la ruggente chitarra di Bloomfied si rinnova con quest’ultimo che ricava dalla propria “amata” Gibson Les Paul (versione Gold) note e scale ben assestate come sciabolate sul tessuto sonoro magistralmente inciso dal sempre ineccepibile compositore newyorkese.

La seconda facciata, forzatamente imposta dalle precarie condizioni psicofisiche di Bloomfield (sofferente di insonnia, ma in realtà già preda a quegli eccessi di eroina che lo conduranno purtroppo alla morte nel 1981), vede invece come “subentrante” la figura nondimeno importante di Steve (Stephen) Stills (Dallas, 3 gennaio 1945), talentuoso chitarrista / bassista / cantante / compositore proviente dalla scena musicale texano-californiana ed ex-membro di assoluto rilievo della famosa band folk/rock americana dei Buffalo Springfield (e futuro fautore con David Crosby e Graham Nash dell’omonimo trio Crosby, Stills & Nash, anch’egli trionfante nella Woodstock del 1969) che spingerà le sonorità del disco verso ambientazioni smaccatamente Country/Rock, ma con numerosi riferimenti al filone psichedelico.

Ciò è dimostrata dalla cover della dylaniana It Takes A Lot To Laugh, It Takes A Lot To Cry, pescata sempre da Highway 61 Revisited, che si fa notare soprattutto per l’imponente base ritmica imposta da Hoh e Brooks e dai brevi, ma incisivi assoli in chiave country/rock (ottenuti con la sua Rickenbaker) di Stills. Ma le vette più alte quanto ad inventiva artistica la raggiunge Season Of The Witch, cover dell’ “alter-ego” di Bob Dylan Donovan, che nella versione suddetta raggiunge elevatissimi picchi di creatività: in questo pezzo assistiamo, infatti, grazie alle penetranti incursioni tastieristiche (e di organo Hammond) di Kooper e alla chitarra wah-wah di Stills qui in versione, diciamo, “demoniaca”, ad un percorso verso l’psichedelia più nera in cui a momenti più “tranquilli” si alternano esplosioni sonore, pari quasi a quelle di un vulcano attivo!

Lo stesso tasso emozionale viene mantenuto in You Don’t Love Me, pezzo in precedenza “coverizzato” nell’album A Hard Road (1967) di John Mayall, che vede l’introduzione dell’harpsicord (usato in precedenza anche da Hendrix nella sua Bold As Love, tratta dall’omonimo album del dicembre 1967) ed in cui brilla ancora la chitarra di uno Stills pienamente conscio dei propri, veramente ottimi mezzi artistici.


Bloomfield Stills


Pertanto, in questo album, la formula della “session” riprodotta e confezionata in studio diventa così in voga, tanto da spingere il suo Kooper/Bloomfield a riprovarci, con altrettanto buoni risultati, nella successiva The Live Adventures Of Mike Bloomfied & Al Kooper del 1969, portando dunque ad una rivitalizzazione sostanziale del genere Blues dei primordi qui “abbellito” dalla presenza della strumentazione elettrica, frutto della sagacia e della passione di cotanti protagonisti del genere, proprio come Kooper e Bloomfield.


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