Negrophilia, cioè amore, passione, ritrovato interesse per i neri, direi per l’Africa nera, per tutto quello che ci riporta alle nostre origini. Rifiuto di una visione etnocentrica, eurocentrica neanche troppo velatamente coloniale. Ritorno al passato, cammino a ritroso alla ricerca delle nostre radici, al ritmo tribale, al battito primitivo che scorre nelle vene.

Tutto questo successe nei primi anni del secolo scorso in Francia prima, in Europa poi. Fu un interesse spasmodico che catturò etnografi, come Michel Leiris, che condussero importantissimi studi sul campo, si pensi alla famosa spedizione della Dakar-Gibuti e artisti d’avanguardia, come Picasso, che rimasero affascinati e letteralmente abbagliati dai manufatti e dagli oggetti che provenivano dai più remoti posti dell’ Africa e non solo.

Ma anche musicisti, che subirono il fascino di strumenti considerati rozzi e primitivi che però riportavano all’essenza della musica oppure fotografi, che per la prima volta avevano la possibilità di fissare paesaggi e personaggi che fino ad allora erano stati solo protagonisti nei racconti di qualche avventuroso esploratore. Da quegli anni ne è passata di acqua sotto i ponti, ma fortunatamente c’è qualcuno che si è voluto imbarcare in una personalissima rilettura della fascinazione della cultura nera che colpì l’Europa di inizio ‘900. Questa è l’idea dietro l’immenso concept album di Mike Ladd, intelligente e dotato produttore ed mc hip hop di base a New York.

Ripercorrere la strada della musica nera alla ricerca delle origini del suono puro e vitale. I riferimenti al free jazz sono fin troppo ovvi, 'The Art Ensemble of Chicago', 'Sun Ra' e 'Ornette Coleman', e permeano tutto il disco, ma trovano spazio anche quelli al funk, come in “The French Dig Latinos, Too” o “Back At Ya” , e all’elettronica d’avanguardia e alla sperimentazione più delirante, intervallata da stralunati spoken word sulla madre Africa.
Nel viaggio lo accompagnano musicisti di primo ordine come il pianista, Vijay Iyer, con cui aveva già collaborato in “In What Language?”, e Guillermo E. Brown, giovane e ambizioso percussionista, visto recentemente al fianco di Matthew Shipp a La Palma, Roma, veramente un portento di ritmica. Che altro dire, davvero un ottimo disco di genere e impedibile per quanti vogliano sentire qualcosa di diverso nell’ intasato mondo dell’ hip hop-jazz.

Tra le altre cose penso che metà maggio sarà in concerto all’Auditorium di Roma proprio nel corso di una rassegna dedicata alla musica africana. Buon Ascolto.

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