Classe 1938, newyorchese di chiare origini italiane, Mike Mainieri può a buon diritto considerarsi (e lo è infatti, da parte del grosso della critica specializzata) uno dei massimi esponenti del vibrafono contemporaneo; fra i primi a sperimentare le avanguardistiche sonorità del "synth-vibe", la sua notorietà negli ambienti musicali che contano è dovuta a meriti che vanno ben oltre la sua pur prestigiosa permanenza negli Steps Ahead, fautori di un'originale (e tecnicamente pregevole) variante di Fusion etnicamente contaminata negli anni '80.
Oltre ad aver intrapreso una lusinghiera carriera di produttore discografico e talent-scout di giovani leve del nuovo Jazz, decine e decine sono le collaborazioni illustri del Nostro: da Paul Simon a Billy Joel (newyorchesi anche loro, e non a caso aperti a raffinati progetti di "cross-over" stilistico), per arrivare ai Dire Straits di "Love Over Gold" e "Brothers In Arms" (da brividi il dialogo con la chitarra di Mark Knopfler in "Private Investigations"). Tanto per tacere del lavoro svolto, fra Sessanta e Settanta, al fianco di mostri sacri del calibro di Benny Goodman, Coleman Hawkins e Wes Montgomery (e, prima ancora, di Buddy Rich).
Apprezzato session-man per tutti i Settanta (ove si era spesso trovato ad affiancare un suo grande amico: Steve Gadd), Mainieri aveva al contempo avviato una più che dignitosa carriera solista, apprezzata soprattutto dal pubblico più squisitamente jazzistico, e lusinghiera in quanto a riconoscimenti critici (tenendo anche conto della spesso sottovalutata modernità di approccio del Nostro, a suo agio fra più stili e grande conoscitore di tradizioni musicali popolari, sudamericane in primo luogo).
Dotato di eccelsa sensibilità esecutiva (ritmica e melodica nella stessa misura, come nella tradizione dei migliori vibrafonisti), Mainieri approda nel 1981 ad una tappa molto significativa della propria personale evoluzione stilistica, e soprattutto della definizione di sé stesso come solista e virtuoso (pur sempre calibrato), impegnato a districarsi fra le pieghe di un repertorio mirato, più che mai adatto ad esaltarne le qualità di arrangiatore.
"Wanderlust" è album straordinario, stellare, suonato benissimo, notevole anche per qualità della produzione. A dir poco impressionante il cast dei "side-men" (più che mai ingeneroso il termine) chiamati alla creazione di questo avvincente episodio di grande Fusion: dagli Steps Ahead Michael Brecker, Peter Erskine e Warren Bernhardt a un giovanissimo Marcus Miller già impegnato con la band di Miles Davis, da Don Grolnick al percussionista Sammy Figueroa a capo di un relativo ensemble, responsabile di molte delle (inevitabili) aperture a certa World-Music ante-litteram.
Ma la ciliegina sulla torta è la padronanza strumentale del leader, il suo saper sempre trovare la soluzione giusta nell'estemporaneità (a volte anche frenetica, intricata) dell'esecuzione di brani compositi, variegati, difficili ma non ostici; dunque gradevoli, fluidi, misurati. Come già negli Step Ahead, prevale la consolidata tendenza di Mainieri ad esporre i temi di ciascuna composizione all'unisono col sax di Michael Brecker, ritagliandosi numerosi spazi solistici ma sempre contestualmente al costante lavoro svolto dagli altri musicisti.
Leader sì, dunque, Mike, ma sempre attento alla coerenza del proprio fraseggio nel tessuto strumentale imposto: da Miller in primo luogo, che ha già sviluppando con sufficiente autorità uno stile bassistico molto Funk sul modello di Stanley Clarke e Louis Johnson (dunque, con largo ricorso alla tecnica dello "slap"); dalle tastiere (miste a programmazioni elettroniche) di Don Grolnick; dalla batteria di Peter Erskine, encomiabile per gusto e agilità esecutiva (sia nei pezzi più classicamente Jazz, sia nell'ambito degli episodi più "impuri" e contaminati).
Concitato turbinio percussionistico ad introdurre l'iniziale (e ritmata) "Bullet Train", fra arie di Bossa Nova e precisi interventi del sax di Brecker, prima di una sezione centrale più soffusa e riservata alle evoluzioni del vibrafono; etnicamente sperimentale è la successiva, lunghissima "Bamboo", con ospite d'eccezione il chitarrista Fusion giapponese Kazumi Watanabe: struttura ritmica dispari, fra tamburi e le eteree sonorità del flauto di Jeremy Steig, poi è Mainieri ad orchestrare le danze, prima della chiusura destinata a riprendere il tema iniziale nell'ottica di un ideale sviluppo "ad anello"; è ancora il leader a dominare la più jazzistica "Flying Colours", mentre la rilassata "L'Image" (che vede l'illustre presenza, al basso, di Tony Levin) è introdotta dal piano di Warren Bernhardt e richiama le cadenze del più recente Pat Metheny.
La seconda parte di "Wanderlust" si apre con "Pep's", forse il brano migliore, sfuggente, notturno, misterioso: sono le atmosfere che meglio esaltano il tocco vellutato di Mainieri, consapevole qui della lezione Blues ma anche capace di variazioni armoniche di gran pregio, prima dell'intervento (più che mai contestuale) dell'altro fratello Brecker, Randy, alla tromba (bello e timbricamente vario l'assolo, su costante sostegno dell'organo). Viceversa, non convince appieno l'elettronica forse troppo invasiva di "Crossed Wires", ma i fraseggi di Mainieri impressionano per vorticosa velocità e precisione (una lezione di tecnica e sentimento, capace di sconvolgere l'ascoltatore più impreparato). Chiudono la romantica "Sarah's Touch" e la straordinaria "title track" per solo vibrafono: impressioni varie del solista, colte in un momento di riflessiva solitudine.
Cinque stelle di diritto: di Fusion il sottoscritto ne ha ascoltata parecchia, ma questo è un Capolavoro, credetemi. Sentitamente consigliato agli appassionati del genere.
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