L'avvento degli anni '80 ha causato all'interno del panorama musicale un forte scossone che ha totalmente rinnovato i canoni musicali e, in un certo senso, costretto gran parte dei gruppi a rinnovarsi: i gloriosi anni '70 furono infatti l'epoca del grande progressive rock che impresse nei cuori di molti nomi di grandi musicisti quali King Crimson, Genesis, Jethro Tull o ancora Led Zeppelin e Deep Purple, ma con l'avvento del nuovo decennio tutto sembrò dissolversi in un bello bellissimo sogno che ebbe breve durata, facendo posto ad una musica più votata all'elettronica, ai campionamenti e alle sovraincisioni che davano alle volte un suono più plastificato alle composizioni. Ci fuorono però band, un esempio lampante furono i Rush, che decisero di continuare sulla propria strada e perseverare nel produrre rock progressivo di grande qualità ed in questo panorama che si colloca quello che forse è stato il polistrumentista più rappresentativo del ventennio '70-'80, ossia quel Mike Oldfield che nell'ormai lontano 1968 diede vita al capolavoro "Tubular Bells".
Dopo qualche album di minore riscontro commerciale, è nel 1983 che il buon Mike si riaffaccia sul mercato con il buon "Crises", che risulta essere ad oggi il suo maggior successo, l'album con il quale fece il grande salto, perchè? Semplice, la presenza di "Moonlight Shadow" dovrebbe bastare come risposta; la presenza di una canzone così devota al pop da classifica non deve però trarre in inganno, ci pensano infatti pezzi come la suite d'apertura, nonché title-track "Crises" a farci tornare coi i piedi nei campi progressive: i 20 minuti passano via senza neanche accorgersene, grazie alle melodie ora pesantemente ispirate al folk, ora quasi new age, fino ad un jazz di sapore avanguardistico, il tutto sviluppato sotto l'ala protettrice del più classico rock settantiano.
Si prosegue poi con la già citata e celeberrima "Moonlight Shadow" nella quale la voce delicata e fine della cantante Meggie Reilly si adagia su una base musicale che vede convergere in se pop e folk: più che per l'effettiva bellezza della canzone, comunque innegabile, credo che questo episodio vada citato per lo splendido testo liberamente (ma neanche troppo) ispirato alla morte di John Lennon. Seguono poi in ordine "In High Places", un misto di prog e new age riuscitissimo e che trova nel teatrale chorus il suo punto di forza, e ancora "Foreign Affair", forse il peggior pezzo del disco, per poi arrivare al breve strumentale "Taurus", canzone di chitarra acustica e batteria dotato di un groove assolutamente fuori dal comune, nel quale si riescono a scorgere influenze addirittura dalla musica popolare spagnola. A chiudere troviamo "Shadow On The Wall" che devo essere sincero non ho assolutamente apprezzato dal momento in cui il buon Mike ha letteralmente preso il riff portante di "Don't Fear (The Reaper)" dei Blue Oyster Cult e l'ha appiccicato a questa "Shadow...".
In definitiva possiamo tranquillamente affermare di essere davanti ad un disco sicuramente fondamentale per il continuamento del progressive, sebbene in questo caso molto influenzato da altri stili, ma ancor più fondamentale per aver donato ad Oldfield una notorietà inaspettata; ciò nonostante è innegabile che il lavoro risulta non privo di pecche e che in più di un episodio si scivola in peccati non proprio venali. Il voto sarebbe un 3,5, ma dato che provo un'ammirazione smodata nei confronti di questo musicista non me la sento di arrotondare per difetto e poi a Mike si può perdonare tutto.
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