"Ommadawn" segna la fine della fase più creativa di Mike Oldfield. Il suo splendido ritratto in copertina, in fondo, sembra essere lì a farcelo capire: il suo sguardo, stanco e pensieroso, attraversa una finestra e si perde in una giornata di pioggia, tradendo un senso di smarrimento o di timore per un futuro che appare lontano e incerto.
Se con "Tubular Bells" Mike Oldfield aveva esplorato, in splendida solitudine, un mondo misterioso fatto di caos e scompiglio, con il successivo "Hergest Ridge" trattò con altrettanta maestria il rovescio sereno di quel mondo. Con questo "Ommadawn" invece, Oldfield chiude idealmente il cerchio, proponendoci un'opera che è a metà strada tra le due precedenti, risultando meno misteriosa e più compatta, ma comunque egualmente evocativa e coinvolgente.
L'opera si presenta con la medesima formula, oramai collaudata, di un'unica lunga suite suddivisa in due parti che comunque, nonostante la lunghezza, non risulta affatto di difficile assimilazione, nemmeno per un'orecchio non "avezzo" all'ascolto di simili composizioni, anche per il semplice fatto che questo disco, come già detto in precedenza, risulta essere meno frammentario dei precedenti e più ""immediato"". Ancora una volta Mike sfoggia una pleteora di strumenti tra i più disparati come il bouzouki, il banjo, la spinetta, il sintetizzatore e l'immancabile sequela di chitarre classiche ed elettriche oltre ad uno strumento classico, l'arpa a cui darà molto spazio, specialmente nello splendido tema introduttivo, che poi verrà ripreso più volte con tutti gli altri strumenti, quest'ultimi suonati anche, e per la prima volta, da altri musicisti. Tra questi figurano i musicisti irlandesi Paddy Moloney e Clodagh Simonds molto noti per la loro musica folk che, in questo disco, sposandosi con le atmosfere africane date dalle percussioni dell musicista africano Jabula, riescono a creare un bellissimo connubio celtico-africano, splendido esempio di world music, in pratica il primo vero esempio del genere in Europa. La prima parte, più sostenuta, riprende più volte il tema iniziale, rielaborandolo di volta in volta e si chiude con una coda di percussioni che sorreggono un coro celtico cantato dalle voci da Sally Oldfield, Bridget St.John e dallo stesso Mike dove si sente la parola amadan, che altro non è che l'origine del nome del disco, e che vorrebe significare in gaelico pazzo, in questo caso per la musica. La seconda parte, pur ricalcando lo stile della prima parte, con un continuo alternarsi di melodie e trame sempre diverse che si rincorrono, risulta essere più movimentata, se non altro per la prevalenza della chitarra che andrà a chiuderà gloriosamente il disco, in maniera frenetica ma piuttosto "seriosa" a differenza dell'arcinoto motivetto "stupido" che chiude "Tubular Bells".
Un disco di tale portata è piuttosto difficile da spiegare nel dettaglio: va ascoltato tutto d'un fiato per poterlo capire a fondo, e poterne cogliere ogni piccola sfumatura che le parole difficilmente riescono a far riaffiorare. Il disco, in definitiva, risulta essere, a mio personale giudizio uno dei punti più alti della discografia Oldfieldiana, sicuramente l'unico che riesce a combattere ad armi pari con le "campane tubulari" nonostante l'importanza storica e il fascino praticamente unico di quest'ultimo.
Ascoltare questo disco spaparazzati sul divano va più che bene, ma il massimo sarebbe potersene stare seduti all'ombra di un'albero, in un bosco, con lo sguardo perso ad osservare quello che ci circonda, lasciandoci trasportare dalla stupende atmosfere che solo un genio come Mike Oldfield poteva creare.
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