La parabola artistica di Mike Oldfield ha sicuramente una qualche affinità con quella di Arthur Rimbaud. Entrambi di talento precocissimo, hanno avuto due mentori d’eccezione che, intuendo le loro potenzialità, li hanno iniziati ai segreti della loro arte.
Il modo in cui Kevin Ayers (ex bassista e membro fondatore dei Soft Machine, band di riferimento della cosiddetta “scena di Canterbury” e successivamente egli stesso uno dei personaggi chiave della corrente progressive e psichedelica britannica) si è “preso cura” dell’adolescente Mike (ingaggiato come chitarrista nel suo capolavoro solista “Shooting at the Moon”), ricorda quello del poeta Paul Verlaine (membro “eretico” della “scuola dei Parnassiani” e, nel tempo, assoluto protagonista del simbolismo e decadentismo francese) che, almeno inizialmente, fece da Virgilio al giovane Arthur nel suo viaggio verso l’ignoto.
I due ragazzi impararono molto dai rispettivi maestri e svilupparono presto un loro personalissimo stile. Il “veggente” Rimbaud toccò il suo apice creativo raggiungendo le vette inesplorate delle “Illuminations”, mentre Oldfield registrò non ancora ventenne il suo capolavoro, “Tubular Bells”.
La neonata etichetta Virgin diede la possibilità a Mike di “concretizzare” la sua illuminazione: un album quasi totalmente strumentale composto da una sola lunga canzone divisa in due parti ben distinte. Oldfield suonò interamente da solo i circa 28(!) strumenti che componevano il suo poema e, grazie ad un certosino lavoro in studio di sovrapposizione di tracce, “Tubular Bells” prese vita.
In bilico tra una sterminata quantità di generi musicali (musica psichedelica, progressive, ambient, folk, rock, musica classica), la prima parte riesce a spaziare in diverse direzioni accennando, intrecciando, riprendendo e sviluppando melodie che farebbero la fortuna di qualsiasi film che le usasse come colonna sonora (come in effetti è stato: l’iniziale tema al pianoforte era quello della famosa pellicola “L’Esorcista”).
Trascorsi circa due terzi della traccia, un massiccio riff di chitarra ripetuto in loop diventa il tappeto sonoro su cui i vari strumenti “sfilano” ad uno ad uno eseguendo la stessa dolce melodia, esempio da manuale di grazia coniugata a bellezza. Introdotti da una voce da maestro di cerimonie che pronuncia il loro nome, gli ultimi “ospiti” a comparire sono le campane tubolari. Poco dopo il pezzo sfuma in un’atmosfera di estatica contemplazione.
La seconda parte di “Tubular Bells”, almeno per il primo terzo, segue un continuum più “coerente” che si dipana come una fresca e soffice pastorale che in una mattina primaverile ci guida in un lussureggiante boschetto di betulle. La tensione sale gradatamente e la melodia diventa simile ad un’ancestrale marcia celtica: siamo nella zona sacra ed inesplorata del bosco. Al culmine dell’energia esoterica che ci circonda, fa il suo grottesco e straniante ingresso un lupo mannaro che, con grugniti da uomo delle caverne (e con tanto di ululati), assembla la sua canzone e ci insegue su un trascinante unisono progressive. Proprio mentre sta per ghermirci, magicamente riusciamo a librarci nel cielo notturno dove fluttuiamo insieme a sospiri d’organo e purissimi refoli di chitarra. Oldfield era però un uomo di effervescente humour: il finale di “Tubular Bells” è affidato al motivetto di Braccio di Ferro eseguito alla chitarra in un gioioso crescendo.
Album pionieristico e fondamentale per la storia del rock, Mike Oldfield è riuscito nel miracolo di gettare ponti tra vari generi musicali in un coacervo sempre in continua trasformazione e , nel farlo, è riuscito a dare un sound e un’ appeal altamente fruibile ad un album che, data la sua rivoluzionarietà e sperimentazione, rischiava di essere all’appannaggio di soli “addetti ai lavori”.
All’inizio della recensione abbiamo parlato delle convergenze tra le carriere di Mike Oldfield e Arthur Rimbaud, ma esistono anche delle discrepanze.
L’accessibilità è appunto una di queste: se Mike ha venduto milioni e milioni di copie e fin da subito ha “sfondato” anche a livello popolare, Arthur ha raggiunto un giusto e pieno riconoscimento solamente dopo morto, essendo stato in vita quasi del tutto ignorato dal “grande” pubblico, totalmente impreparato al suo linguaggio visionario e al di là di tutti gli schemi.
Non solo, se il poeta francese già a 21 anni circa ritenne conclusa la sua parabola artistica (andando a fare il mercante in Africa), il musicista inglese è tutt’ora in attività (anche se dopo “Tubular Bells” e dopo un altro paio di ottimi album la sua vena creativa è andata progressivamente scemando).
Ritengo infine, ma questa è una mia personalissima opinione, che il peso di Rimbaud sulla letteratura a venire sia stato comunque superiore a quello di Oldfield in campo musicale: il poeta francese è stato, secondo me, uno dei pochissimi artisti della storia ad essere riuscito ad andare veramente “Oltre” (come Proust nella prosa o Kubrick nel cinema).
Mike e Arthur sono però entrambi il simbolo di come, alle volte, per creare nuove strade ci sia bisogno del talento di una mente “vergine”, coraggiosa, incosciente, ricettiva e irrimediabilmente ribelle.
“Io dico che bisogna essere veggente, farsi veggente. Il Poeta si fa veggente mediante un lungo, immenso e ragionato sregolarsi di tutti i sensi” (A. Rimbaud Lettera del Veggente, 1871)
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