Già ai tempi della sua uscita (2005) era chiaro che "People" sarebbe stato il primo e ultimo album di Mike Pathos. A confermarlo, la personalità dell'autore, di cui non si sa nulla se non che è un malato di mente di quelli forti (noto il suo tentativo di dichiararsi morto in modo burocratico) e che è stato messo sotto contratto dalla Tzadik di John Zorn. 

Violoncellista anticonvenzionale, Pathos impiega anni a concepire quello che è il suo testamento artistico: un disco sconvolgente e straordinario insieme. Violento, carnale, infernale

Se possiamo cercare qualcuno che si avvicini al suono di questo matto possiamo restare nei termini del violoncello stuprato e reso noise citando una Okkyung Lee (pure lei amichetta di Zorn), ma anche qui stiamo piuttosto larghi e poco vicini alla descrizione di ciò che "People" contiene.

"People" è un incubo: è come entrare nella testa di un pazzo. C'è una via d'entrata, ma non una via d'uscita. E se ne esci, qualcosa in te si spezza, si distrugge l'autocontrollo, diventa ormai solo una parola. 

C'è un violoncello, ovviamente a scolpire queste dieci gemme, ma scordatevi ogni nozione di musica classica (anche contemporanea, anche d'avanguardia). Lo strumento esiste, è presente, ma è ridotto a lamentoso cadavere. Reso stonato, brutto, rumorosissimo. Modellato con l'elettronica fino a renderlo un urticante lamento

E se "People" sembra partire con due pezzi che paiono bozzetti di canzoni vere e proprie ("Envoy" e "Mourner") si finirà con l'inoltrarsi sempre di più in veri e propri deliri. Come se ogni capacità di autocontrollo e di sanità vengano via via a disintegrarsi, ad uccidersi, a ridursi a brandelli. Pathos canta pure, ma a modo suo ovviamente: stecca come gli pare e se ne frega, mugugna e urla come il più molesto degli ubriachi ("Citizen", dove l'altalenare della voce squarcia uno spiraglio di fanfara dal suono satanico).

Già nella successiva "Novel Author" la voce stessa si modella, si squarta, rendendola prima un chipmunk con la rabbia e poi il testamento di un lebbroso. La musica accompagna la declamazione sincopata e poi funerea, incline tra l'euforia e il suicidio. 

E quando non te l'aspetti, ecco "Liar". Altro non è che una cover malata e destabilizzante di "Imagine" di John Lennon resa punk, marcia e senza futuro.  Quindi sofferenza pura nel blues marcilento di "String Player" straziato da un flusso di rumori harsh che fa sembrare il Merzbow più controllato neomelodico. Suona come l'ultimo giorno sulla terra ed è bellissima e inquietante insieme.

Un flusso harsh che non si placa nella straordinaria "Traveller": un drone cattivo con la catarsi nel sangue, un kamikaze di suono che colpisce subito e ti getta sulla spiaggia più tetra del mondo mentre le orecchie ronzano. Nei timpani, il sussurrare di uno zombie che sopravvive a quest'attacco di spasmi nucleari dall'iperuranio.  Poi tutto cessa e i suoni vengono risucchiati chissà dove. Sei morto.  Resta solo il canto lontano di un angelo ateo che ti trascina ai suoi piedi. E il trapasso può continuare solo in una sottomissione: riparte un'agonia catartica di puro rumore. 

A un passo dall'aldilà c'è "Fatalist", l'incontro con Lucifero in persona. Mentre qualcosa altrove (sembra un flauto, ma non ne sono poi così certo) intona una melodia allegra e rassicurante, in primo piano il violoncello tesse ansie senza risoluzione e la voce si riduce ad un gracchiare insonoro e putrefatto.

Il buio. L'aldilà è indescrivibile ma ci sei con i piedi che ci fluttuano dentro. Tutto è nero, ma nulla ha corpo. Di più non si può dire. "Penant", dolorosissima, è questo: 13 minuti di fluttuare nel nulla, vulnerabili e nudi. Nuotare in un oceano senza superficie cercando relitti che non hanno forma. Il sospiro di un'anima che si è pentita di non aver realizzato tutto il possibile nella sua vita.

Ma non c'è possibilità di redenzione: a chiudere il sigillo ci pensa l'infernale e disperata "Liars", un gemere incomprensibile bombardato (LETTERALMENTE) da scariche di violenza (anche per l'ascoltatore) che sembrano elettroniche, ma che non sono di questo mondo. Gemere incontrollato destinato a sfociare in una ghost-track che non è altro che lo speranzoso dono di una reincarnazione dopo la narrazione. Inutile dire che questo non è possibile, infatti di successivi album di Mike Pathos non ce ne sono davvero stati.

Ancora una volta siamo caduti nell'inferno, che questa volta non è sensazione reale (come, ad esempio, avveniva nello "IAO" di Zorn o nei crudi episodi dei Naked City), ma più metafisica. Siamo nell'inferno tra le tempie di un uomo (un genio?) che in pochi sapranno apprezzare davvero. 

Con la speranza che l'assistere al trapasso di un pazzo sotto forma di musica non vi affligga troppo, vi dico: amatelo. Amate questo disco anche se rumoroso, delirante, fuori dal mondo. Perché non sentirete nulla che si avvicini a ciò che qui viene riprodotto con tanta semplicità. 

Salutatemi Caronte. 

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