Quando da piccola guardavo "gli Aristogatti", la scena dell'inseguimento topo-gatto, e del beone tormentato sullo sfondo, mi eccitava e mi divertiva particolarmente. Ben presto capii che quell'eccitazione era dovuta con molte probabilità al frenetico assolo di chitarra che imperversava nel sottofondo. Quel sound lo considerai già da subito un simulacro della chitarra jazz (per quanto potessi capirne di jazz, e per quanto potessi capire la differenza che intercorre tra una chitarra ed un panino al formaggio...).
Ora, dopo un decennio o forse più di lontananza dal fronte disneiano, quel sound mi è ancora caro: probabilmente è sfuggito, ha perso la nitidezza della sua voce, ma non il suo colore, che ho ritrovato dopo anni per puro caso (o per circostanze diverse di cui non ricordo i particolari) ascoltando un giorno un certo Mike Stern, una certa "One Lines". Fu il primissimo passo verso il jazz di un'adolescente che ascoltava blues e che si commoveva per la fine che avevano fatto gli anni '70.
Non potevo chiedere di meglio!

Da allora non poteva non diventare uno degli strumentisti da me più adorati, sin dagli anni della sua giovinezza trascorsa al sole del grande Miles (si, c'è chi ha tutto nella vita..).
Ma ora passiamo a quest'album che il buon vecchio Mike distribuisce al suo pubblico nel 1997, accompagnato da (nientepopodimenochè) Michael Brecker e David Sanborn (rispettivamente tenore e sax alto), e da Patitucci e DeJohnette al basso e alla batteria.

Le composizioni sono in maggioranza originali, con la gradita presenza di celebri standard per la gioia degli ascoltatori accidiosi come me, troppo stanchi per ascoltare un tema del tutto nuovo. Ecco quindi che l'orecchio si ristora con "I Love You" di Cole Porter, una strepitosa versione della coltraniana "Giant Steps", "Who Knows" che rappresenta un dovuto e riuscito tributo ad Hendrix, e per finire (brano che chiude l'album) l'anatole "Oleo" (Sonny Rollins). Libero da "oneri" compositivi, Stern si lascia accalappiare dall'alto virtuosismo delle sue mani nel suo (a volte però ridondante) fraseggio.

Le track restanti sono piacevoli, incalzanti, e ben suonate, come la bellissima e già citata "One Liners", che ipnotizza chi ascolta in 8 minuti e più di valanghe di note sensate e ben "piazzate", il blues "Jones Street", "Lumpy", "Hook Up", le due ballad "Everything Changes" e la stupenda "Rooms", e "That's What You Think" che consacra l'estrema versatilità di Mike, che utilizza delle pennellate di rock per addolcire e rimodernare la pillola ormai desueta dello swing.

Tecnicamente lo stile di quest'album ricorda, per certi versi, l'acido Scofield degli anni '80, con l'aggiunta di frasi decisamente più lunghe e ponderate, che lasciano forse però troppo poco spazio ad un'estemporaneità più impulsiva e schietta.
Il disco è bello, come detto le tracce si susseguono senza appesantire l'orecchio, che si crogiola nella cascata di scale, arpeggi e pattern suonati quasi in sordina, con l'accompagnamento ritmico che si riduce (saggiamente) all'essenziale.

E' forse la perfezione e la compattezza stilistica di quest'album a destare un paio di perplessità: non ci sono picchi nè abissi. Il tutto è una miscellanea perfettamente equilibrata di stili, che si fondono però fin troppo bene per conservare carattere.  Se si considera poi che dal punto di vista compositivo l'impegno poteva essere sicuramente più attivo, la soglia minima per il voto scende decisamente a 3,5.
Ma l'uso sapiente ed onesto delle tecniche chitarristiche che ne fa questo grand'uomo, e il grande rispetto che musicisti di questo calibro meritano, mi spingono ad essere clemente e razionale. In più poi c'è il ricordo dei gattini in giro per Parigi e delle loro peripezie...

4. Arrotondato per difetto.

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