Aura, aurae. Latino. Prima declinazione. "Soffio", "brezza", "vento", ma anche "luce", "bagliore improvviso", "fulmineo scintillio" (Eneide VI, 204: "auri per ramos aura refulsit", "fra i rami lampeggiò lo scintillio dell'oro"). Luminescenza magnetica, impalpabile, inafferrabile, l'aura è il "calore" che emana dalle cose e dall'anima, è variegato e composito fascio di timbri e sfumature diverse. E' magnetismo che si propaga a partire da una fonte di recondita energia di cui s'ignora l'origine. E' "trasporto", "ascendente" nel senso di fascinazione, di capacità attrattiva di un'entità su di un'altra. E' proprietà di ipnotizzare, immobilizzare, stordire, la proprietà misteriosa di Socrate che alla maniera della torpedine traeva a sé gli interlocutori con la sola forza di una frase, di un discorso. Ma anche proprietà di sedurre, coinvolgere, emozionare, immateriale e invisibile soffio vitale che si trasmette nell'aria e attraverso l'aria si diffonde, facendo sì che pochi, unici individui riescano a "brillare di luce propria". E' carisma.

E' ciò che Palle Mikkelborg riconobbe in Miles Davis.

Miles fu la fonte, il generatore di energia, il musicista danese ne fu il ricevente, l'incaricato di convertire in forme musicali, in concreta materia sonora una sequenza di messaggi non-linguistici che molti riescono a captare, non tutti a decifrare. L'occasione dell'incontro fra i due si era presentata in maniera del tutto fortuita: la consegna a Miles del prestigioso "Sonnings Music Award" nel dicembre del 1984. Affascinato dall'avvolgente magnetismo del Genio di Alton, Mikkelborg volle dedicare al collega americano una suite destinata a comparire sull'ultimo album che Miles avrebbe inciso per la Columbia, a conclusione di un rapporto pluridecennale, prima del suo passaggio alla Warner per "Tutu" e gli altri dischi dell'ultimo periodo.

Registrato a Copenaghen fra il 31 gennaio e il 4 febbraio 1985 (ma pubblicato solo quattro anni dopo), "Aura" è - a detta di molti e anche del sottoscritto - il testamento artistico di Miles, oltreché uno dei massimi vertici espressivi nella musica dell'intero ventesimo secolo. Opera meravigliosa, unica anche all'interno della pur sterminata discografia davisiana, depositaria di un'intensità e di una potenza evocativa che ne giustificano in pieno lo status di "capolavoro" che le è ormai riconosciuto.

Opera in cui, ancora una volta, Miles guardava e si spingeva "oltre", oltre i confini della musica intesa come semplice manifestazione sonora, oltre i traguardi da lui stesso fissati e migliorati nell'arco di un'ideale progressione proseguita per più di tre decenni. Opera per la quale è quantomai riduttivo l'impiego della categoria di "Jazz", più appropriato ma neanche esauriente l'uso della definizione di "Fusion": punti di contatto - a livello di soluzioni ritmiche, soprattutto - con la Fusion del decennio ve ne sono eccome, e qualsiasi cultore del genere saprebbe individuarne senza sforzi, ma mi pare assai difficile avvicinare ad "Aura" la coeva produzione di un Corea o di un Hancock, tanto per fare due illustri esempi, e ciò sulla base di un elemento principale: per la prima volta dopo 22 anni (era infatti il 1963, ai tempi della collaborazione con Gil Evans) Miles torna ad incidere con una grande orchestra Jazz (la "Danish Radio Big Band" diretta dallo stesso Mikkelborg, forte di una trentina di elementi); eppure, ciò che si ascolta è ancora ben lontano dalla nozione comune di "Jazz orchestrale", senza necessariamente ricorrere a precedenti remoti ma anche pensando allo Zappa arrangiatore per big band di album come "Waka-Jawaka" o "The Grand Wazoo". E' avanguardia, è l'espressione luminosa di un ideale di musica post-moderna che rifugge dalla demarcazione fra generi e soprattutto dall'impiego sistematico di cacofonie e repertori rumoristici che molta tradizione aveva considerato aspetto pregnante di qualsiasi avanguardia; è una sinfonia, è una sequenza ragionata, razionale e coerente di movimenti, successione di più spunti emotivi corrispondenti ad altrettanti motivi tematici.

La determinazione dei movimenti (e di conseguenza, la scelta di una loro peculiare ambientazione sonora) fu attuata da Mikkelborg sulla base di un'intuizione geniale: ovvero, la fissazione di un codice semiografico che sancisse con chiarezza una corrispondenza fra psiche e materia, fra concezione ideale della musica e sua effettiva realizzazione "sul campo". Dieci sono le lettere che compongono il nome e il cognome di Miles (M-I-L-E-S-D-A-V-I-S); a ciascuna di queste lettere fu associata una tonica sulla base di un preesistente sistema alfabetico elaborato dallo stesso Mikkelborg. Tutte e dieci le note costituiscono l'ossatura fondante del percorso scalare che si ascolta nell'Introduzione, mentre i restanti nove movimenti sono composizioni a prevalenza monotonale corrispondenti a ciascuno dei colori (e delle gradazioni di colore) che il danese aveva riconosciuto nell'"aura" di Miles: nell'ordine, bianco, giallo, arancio, rosso, verde, blu, rosso elettrico, indaco, violetto. Le dieci toniche di base sono "srotolate" e organizzate in un fraseggio coerente dalla chitarra di John McLaughlin, che apre l'introduzione sullo sfondo di un etereo e crescente "continuum" orchestrale, preludio all'"esplosione" coordinata di basso, batteria e percussioni su tempo dispari, mentre il chitarrista inglese approfondisce l'assolo - concedendo a Miles sporadici ma pur significativi interventi - su progressioni di vorticosa velocità; molto dell'attitudine espressiva di McLaughlin in "Aura" ricorda il Mike Stern di "The Man With The Horn" o "We Want Miles", e semmai abbiamo qui un ulteriore conferma di quanto il chitarrista di Boston fosse debitore dello stile di "Mahavishnu".

In "White" è invece Miles a salire in cattedra, sviluppando il tema sulla tonica di turno, coadiuvato dal perfettamente contestuale intervento dell'oboe di Niels Eje e da gelidi triangoli e percussioni di sottofondo, per una composizione sfumata, "atmosferica", desolata che va decrescendo d'intensità in una lunga, maestosa progressione di oltre sei minuti. Misteriosa e avvolgente "Yellow", aperta dall'arpa di Lillian Toernqvist (e ancora dall'oboe, a creare un impasto dal sapore più che mai "classicheggiante"), prima che la chitarra del turnista Bjarne Roupé porti a un deciso inasprimento del suono, ben sottolineato verso il finale dal claustrofobico e "pesante", fragoroso irrompere dell'orchestra nella sua interezza.

La "free-form" vagamente Funk di "Orange" e lo "steady-groove" di "Blue" riportano alla mente (in parte) le suggestioni della coeva Fusion giapponese di Kazumi Watanabe (il suo "Mobo" è uno degli album del periodo che Miles apprezzò maggiormente); nella prima, la chitarra di McLaughlin vale l'intero pezzo. "Red" (assieme ad "Electric Red", che non se ne discosta molto) è senz'altro il movimento più tecnologico e genuinamente elettronico, ideale approfondimento di soluzioni adottate da Miles nei dischi del più recente passato, "Decoy" e "You're Under Arrest"; l'integrazione di basso "slappato" e secca drum-machine ne è la più diretta conferma. Atmosfere alla Pat Metheny dominano l'avvio di "Green", ma è forse la seconda parte a destare i maggiori interessi, con le splendide linee disegnate dal contrabbasso di Bo Stief. "Indigo" è costruita sul "drive" caratteristico dello Swing orchestrale, la conclusiva "Violet" segna il ritorno di McLaughlin per nove minuti di puro incanto.

Superbo. Immenso. Inarrivabile. Tre aggettivi che saprebbero descrivere degnamente ciò che si ascolta in un album di questa portata. Cinque stelle, ovviamente, ma non esistono valori numerici che sappiano rendere conto di questa manifestazione di puro Genio musicale.

A vent'anni esatti dalla sua scomparsa, voglio ricordare Miles con la sua opera che più mi ha segnato. 

Mai più nessuno come Lui.

 

 

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