I dischi di questo quintetto sono un orgasmo.
Si va sul sicuro, non ce n'è uno che non sia un'avventura per la mente e per l'anima...
"Sorcerer" del '67, terzo da studio di questa formazione da capogiro, rappresenta una sorta di collegamento stilistico tra la perfezione del loro peculiare linguaggio raggiunta in "Miles Smiles", e l'ulteriore, successivo cambiamento di rotta documentato in "Nefertiti".
Tutto il lavoro si basa sull'utilizzo esteso di "formule" da loro consolidate in precedenza: flessibilità, interplay, composizioni originali di altissima qualità, ruolo paritetico dei partecipanti e infine un modo di intendere il ritmo inedito e sconvolgente. Una raffinatezza melodica e improvvisativa ormai ineguagliata si sposa a pennello con una carica fisica debordante, quasi brutale.
Questo è il primo album di questo gruppo in cui Wayne Shorter detta legge in quanto a contributi compositivi; quattro su sei sono brani frutto della sua penna, e tutti di gran pregio!
Si comincia con la sua "Prince Of Darkness" (uno dei nomignoli di Miles), un medium up-tempo analogo nella concezione a "E.S.P." e a "Orbits", gli opener dei loro primi due dischi studio. Come gli altri, pezzo perfetto per entrare subito nel vivo, e semplice nella sua struttura, che ruota attorno ad un motivo di cinque note elaborato ad ogni battuta. Il ritmo scandito dalla batteria di Tony Williams è freschissimo e pulsante, fuori dagli schemi e con qualche influenza latina, il basso di Ron Carter anziché fare walkin' compie un continuo fraseggio (spesso in emiola), anche con bi e tricordi e Herbie Hancock, che tace durante gli assoli della front line, si limita ad accordi staccati di pianoforte, che spezzano e ricompongono la pulsazione. Parte il solo maturo e sapiente di Miles alla tromba, che ormai aveva un suono inarrivabile e assolutamente personale che volava nella stratosfera, e a seguire il sax tenore virile e delicato al tempo stesso di Shorter. Hancock ritorna con un bellissimo assolo di mano destra a la Lennie Tristano, serio e intellettuale.
Secondo brano la misteriosa "Pee Wee", pensosa e sofisticata ?"ballad" minimalista di Tony, in cui Miles non figura e il quartetto è al massimo dell'intimismo e del rigore.
Capolavoro dell'intero album, la grandiosa "Masqualero", composizione strepitosa di Shorter in cui umori, fantasmi, brividi, vicende, sonorità si alternano in un libero fluire. Tensione al massimo per i quasi 9' di durata, la si può sentire sulla pelle; questa musica respira come un essere vivente, l'energia si accumula per poi essere rilasciata. Uno straordinario momento durante il solo di Miles, che alzando imperiosamente la voce è seguito subito nel crescendo da Tony, Ron e da un geniale intervento di Herbie con i suoi accordi acidi staccati, ormai suo marchio di fabbrica. Miles cede il testimone a Wayne, che si rende protagonista di uno dei più maturi, strutturati e profondi soli di sax tenore mai sentiti. Il genio di Shorter negli anni '64-'68 era allo zenit anche come sottigliezza improvvisativa, certe finezze sono state di suo esclusivo appannaggio, e nei suoi soli era in grado di creare cose di tale livello emotivo e "concettuale" da far sfigurare anche un Coltrane o un Rollins. Dopo tanta emozione, segue un Hancock ispiratissimo, con le sue espressionistiche cascate di note e le sue linee semplici alla Satie, evidenziate dal pedale di risonanza. Il supporto che qui tutti i musicisti ricevono dal basso di Carter è davvero da incorniciare, e ha fatto scuola a migliaia di contrabbassisti.
Il lato B dell'lp è più esplosivo, con "Sorcerer" (altro nomignolo di Miles!) di Herbie e "Limbo" di Wayne nelle quali la batteria è maggiormente dominante e i volumi si alzano. L'interplay è stupefacente al punto da sembrare irreale, ascoltare per credere! Chiude il disco in maniera più meditativa "Vonetta", poema tonale dedicato da Wayne a una sua congiunta.
Per la verità in "Sorcerer", per motivi ignoti, fu inclusa anche, alla fine dell'album, una sconcertante e curiosa "Nothing Like You", registrata cinque anni prima e arrangiata da Gil Evans, che possiede valore documentario poiché fu la prima volta che Miles e Wayne suonarono insieme. Altri musicisti coinvolti sono gli sconosciuti Frank Rehak (al trombone) e Willie Bobo (ai bonghi), e i conosciutissimi Paul Chambers (basso) e Jimmy Cobb (batteria). Si tratta di due minuti di canzoncina invero di buona fattura, in cui l'attenzione è catturata dalla voce quasi atona e divertentissima di tale Bob Dorough, che canta un testo d'amore volutamente banalissimo e iperbolico, che suscita ilarità proprio in virtù della discrepanza tra testo e mancanza d'emozione nella voce. Una vera e propria presa per i fondelli (ottimamente riuscita) all'ipocrisia insita in un certo sistema di corteggiamento.
Tirando le somme, questa è per me la formazione musicalmente più evoluta di sempre, e dare meno di 5 mi è impossibile. Per regolarvi, in confronto a "E.S.P." e "Miles Smiles" sarebbe un 4.5.
Comunque da ascoltare senza indugio!
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