Quando si parla di Miles Davis é difficile non cadere nell'ovvio e nel retorico. E' difficile essere obiettivi di fronte a un autentico genio della musica moderna, un musicista in grado di far uscire la musica jazz dai suoi confini, dandole una nuova vita, facendo confluire al suo interno un intero mondo musicale, un intero mondo di influenze che vanno dal blues piú tradizionale al rock piú ruvido, dall'improvvisazione jazz piú classica al funk/rock d'avanguardia di "On The Corner". Un musicista in grado di prendere la musica per mano e portarla in un ipnotizzante viaggio all'interno di nuovi suoni, nuove ricerche. Un viaggio dove il jazz non é il punto di arrivo, ma solo la colonna sonora che risuona dalla filodiffusione.

"The Man With The Horn" é generalmente uno dei lavori meno considerati di Miles (ne é la prova il fatto che su questo sito non é neanche stato recensito), offuscato spesso da capolavori come "Kind Of Blue", "Nefertiti" o l'avanguardistico "On The Corner". Eppure é uno dei lavori maggiormente ispirati del musicista statunitense. La sola presenza di Marcus Miller a un basso nervoso che sembra risuonare dall'anima stessa e di Bill Evans al sax soprano é una garanzia di qualitá. Se poi ci si mette anche la maestria di Miles nello scrivere composizioni in grado di arrivare dritte allo stomaco, il cocktail é servito.

Giá dalle prime note di "Fat Time" (uno dei miei brani preferiti in assoluto) ci si accorge di quanto questa miscela funzioni: un basso che la fa da padrone domina con un ritmo sincopato il brano, un basso a cui si sovrappongono frammenti di melodia uscenti dalla tromba di Miles, come delle schegge impazzite che di tanto in tanto compaiono nella profonda ritmica costruita da Miller. E nella metá del brano si sovrappone anche la chitarra distorta di Barry Finnerty, delineando un improvvisazione dal sapore rock che risuonerebbe quasi fuori luogo in un disco jazz che non sia un disco del grande Miles. Le atmosfere poi si placano verso la fine, e il ritmo sincopato del basso chiude quello che é un autentico gioiello jazz.

E' piú distesa la successiva "Back Seat Betty", dal sapore blues lievemente malinconico, mentre in "Shout" il basso di Miller torna a essere protagonista. "Aida" é una di quelle tracce fatte per essere ascoltate tante volte, e ogni volta é capace di rivelare un nuovo lato di sé: un brano sorprendente nella sua complessitá, dove i nostri musicisti danno il meglio della loro capacitá tecnica. La title-track é una distesa e orecchiabile ballata soul centellinata da una splendida voce femminile: non é il brano piú riuscito dell'album probabilmente (almeno da un punto di vista compositivo), ma é sicuramente il piú immediato ed evocativo.
Il finale é dedicato a "Ursula", quasi 11 minuti di pura improvvisazione che ci faranno amare il jazz e la genialitá di Miles Davis e dei suoi musicisti.

In definitiva, quest'album puó apparire in secondo piano rispetto ad altri lavori di Miles Davis, ma é probabilmente uno dei piú riusciti, uno di quelli maggiormente ispirati sia sotto il punto di vista compositivo sia sotto quello tecnico. E se dovessi consigliare a qualcuno di avvicinarsi al mondo del jazz non disdegnerei di consigliargli quest'album.

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