Del disco, di questo disco dalla copertina mefistofelica, con un Miles bianchenero truce in primissimo piano, s'è già detto tutto e il contrario di tutto. Qualcuno parlò, e parla ancora, di capolavoro, altri di capolavoro mancato, altri ancora del Miles "che non è più quello di una volta", ed altri del Miles "imprevedibile, migliore che mai". A distanza di troppi anni, tutte le versioni paiono avere una propria giustificabilità, in linea di massima, ed argomenti plausibili e credibili a difesa.

Certo va fatta una premessa, anch'essa sicuramente pregna di possibili contrasti. La valutazione di un disco, come di un'opera qualunque, va necessariamente fatta con una conoscenza diretta dell'opera stessa e del periodo (cosa ovviamente impossibile per gran parte dell'arte, salvo highlander...)? La conoscenza diretta, perlomeno, aiuta? Oppure, al contrario, è del tutto irrilevante e chiunque, dotato di buona cultura e dignitosa conoscenza, può valutare attendibilmente qualunque lavoro?
Questo per dire: chi allora c'era ed ha sentito per la primissima volta quei suoni, che sarebbero stati imitati pesantemente, a proposito ma molto più spesso a vanvera, ha "più voce in capitolo"? Stesso discorso che vale per Elvis: chi ha sentito e visto quelle cose, allora, può giudicare patetico un robbiewilliams qualsiasi, con più cognizione di causa di un ventenne?

Discussione apertissima, e magari anche interessante. Fatto sta che, vi garantisco (e ve lo può garantire chiunque allora fosse presente, comprante ed ascoltante), quei suoni stupirono, lasciarono a bocca aperta. E si ebbe molto più la sensazione del genio che del bluff.

Miles veniva dalle svolte che sappiamo, e non era la prima volta che stupiva. Ormai riteneva superfluo improvvisare su una linea armonica complessa, fino ad arrivare alla discutibile "spiaggia" del brano per accordo unico. Anche in questo molti ebbero gioco facile alla critica: "non è una scelta: non ce la fa più, non è più capace".
Oggi, con molta competenza in più (non è immodestia: è solo dovuta ai milioni di minuti spesi in ascolti i più disparati...), sono parzialmente d'accordo con la critica: a mio avviso Miles aveva un suono bellissimo, sapeva creare un'atmosfera incredibile, generata dall'anima enorme che aveva la fortuna di portarsi con sé. Ma tecnicamente era l'ombra del Miles che s'ascolta con Trane o con Evans (...tutt'e due...). Il fraseggio ormai è stilizzato: la centralità è il suono e, come ho detto, l'atmosfera.

In realtà, quanto questa scelta sia stata dettata dalla consapevolezza o dalla necessità non lo sapremo mai. Fatto sta che il disco, per me, valutato come opera compiuta, voluta e finita così, è bellissimo, ed è a tutti gli effetti una pietra miliare della storia del jazz. Lo è per forza: è una pagina girata, una pagina ultra-imitata, e seguita da paginette piccolissime di passi avanti, ed un'infinità di passi indietro.

Miles, come Faber, sapeva poi circondarsi di gente coi maroni. Qui lasciò ampio spazio, anche compositivo, a Marcus Miller, ottimo bassista elettrico, che seppe costruire sui perfetti confini del protagonista un'opera assoluta, un "vestito" del tutto giusto. La prima somiglianza che mi viene in mente è ciò che ha fatto Pagani con "Creuza de mà".

E Tutu, col suo fun-rock-fusion-jazz, con le sue percussioni acustiche ed elettriche mischiate, con quelle linee di basso presenti, potenti, forse vera scuola principale del disco, ed ovviamente quella tromba sordinata che sa dire quel che vuole meglio di chiunque altro, è un monumento agli anni '80, allo scollinamento della storia del jazz, e della musica in generale.

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