Credo che non bisogni aver studiato musica in maniera collegiale se si vuole apprezzare questo Miles Davis. Molti non se ne fanno capaci sciorinando modi di apostrofarlo che vanno dal traditore all’accattone. Ho sentito anche questo da gente che ritenevo intelligente e che, comunque, suona da divinità. Questo Miles Davis non ha bisogno di difese, si qualificano da soli coloro che ne parlano in cattivi termini, in un ventaglio che va anche dal presuntuoso al defunto. Amen.
Come mai proprio questo disco dei suoi anni ’80? Perché mi capita spesso di ascoltarlo, lo trovo uno dei più masticabili, anche per chi non ama i dischi strumentali, e meno strutturati. Lo trovo interessante perché al suo interno circola la forza fluorescente di un decennio nelle condutture metalliche e rombanti di questo linguaggio elettrico e amante delle luci della ribalta. Quando vibra la sua tromba, come sempre accade, subito sai che è lui, mutante, arrangiato per l’ennesima volta su sonorità che non t’aspetti, e presentato con fotografie improbabili che lo ritraggono in maniera un po’ risibile e grottesca. Ma che ci vuoi fare. Gli anni ’80 erano così e Miles Davis amava vestire i panni della star di poche parole, torva e minacciosa di facciata. Credo, però, che usasse le spalline soprattutto per nascondere la sua fragile sensibilità artistica. D’altronde non aveva bisogno di fare cose per moda, quando la moda la faceva lui. Mi colpisce, però, il fatto che ci abbia sempre messo la faccia, con i suoi occhi che interrompono violentemente il nero della pelle. Un contrasto che fa pensare a tante altre cose. Alla sua immagine di artista che può mettere insieme i contrari oltre che le meraviglie musicali prodotte dall’uomo.
Il disco non è classificabile tra i suoi capolavori, anzi. Nonostante la presenza di John Scofield alla chitarra, in un periodo di ricco confronto jazz-fusion, You’re Under Arrest sembra essere un’opera leggera, affrontata con ironia, e registrata anche abbastanza velocemente. La miscela sonora è, a tratti, marchiana ed eccessivamente americana, quasi ideale per un tour in cabriolet per le vie di Las Vegas, tanto suonano prepotenti i synth. Però colpisce per le variegate composizioni che si divertono ad affrontare noti temi pop, di enorme successo planetario, come le due cover "Human Nature", che su disco rende bene ma dal vivo (penso a Parigi) restituisce tutta la concentrazione di Davis che qui non si vede, e "Time After Time", meno partecipata e sicuramente non decisiva per le sorti di questo album. Entrambi i brani sono comunque affrontati sul velluto e con dolcezza, quasi fossero stati partoriti dallo stesso trombettista. Questi i pezzi più appariscenti dell’album, che per il resto procede in una lastricata galleria di effetti polisintetici in cui trovano spazio le visioni popolari mainstream della musica afroamericana dell’epoca. Penso ai bassi spizzicati, alla chitarra dura ma fluida e alla stessa tromba di Davis, oltre che alle percussioni, con appigli che vanno chiaramente da Jackson (non solo per la cover, che forse qui meno rappresenta ciò che voglio dire) a Prince (il più giovane e sballato, qui sdrammatizzato dal maestro e dalla serietà dei professionisti che lo hanno accompagnato in studio) ai Weather Report (che ci stanno perfettamente adagio, per il discorso sui contrari di cui prima).
You’re Under Arrest, tra i dischi degli anni ’80 di Davis, mi sembra il meno riuscito e quello con le vedute più morbide e larghe. Un modalità per farsi ammirare da un pubblico ancor più disomogeneo, ben distante dal più complesso e magnificamente riuscito Decoy, che per mio modo di ascoltare, risulta essere il non plus ultra di quei tempi (con il grande pregio delle percussioni incredibili sbatacchiate da Mino Cinelu). Non aspettatevi grande musica, insomma, ma solo pezzi da sottofondo se avete intenzione di rilassarvi in una serata tra sigarette e Biancosarti, con la luce criptica e velata dell’abat-jour.
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