Sballottante. Così lo definirei in una parola, questo film. Non perché non siano adeguati termini ben più eleganti come "stravolgente", "d'impatto", eccetera, ma perché reputo che contenga un'accezione più adeguata ad un film che davvero mi ha fatto rimbalzare di continuo da una parte all'altra delle possibili considerazioni su di esso. Mi riferisco soprattutto alla valenza dei personaggi: dall'inizio alla fine del film non ho capito se mi trovavo più dalla parte dei malati o dalla parte dei medici, qualora queste due fazioni fossero davvero state tanto evidentemente distinte. Per non parlare del protagonista, vero emblema di questo fatto, che definirei schizofrenico solo per il fatto di intervallare di continuo a momenti di delirio puro atti di totale lucidità e a tratti addirittura educativi per i suoi compagni di manicomio.

Ma facciamo un passo indietro:
Qualcuno volò sul nido del cuculo
(titolo che si presta ad almeno tre diverse interpretazioni, partendo comunque spesso dal presupposto che coockoo in inglese possa indicare anche una persona mentalmente deviata) è un film del 1975 di Milos Forman, tratto dall'omonimo romanzo di Ken Kesey, basato sull'esperienza diretta che l'autore ebbe nell'ambito dei manicomi. È lecito aspettarsi un film di totale e palese distruzione e denuncia dei metodi allora in uso all'interno di tali ospedali psichiatrici, ma almeno per un certo periodo del film la cosa rimane molto vaga. Mi spiego: il protagonista Mac McMurphy, magistralmente interpretato da Jack Nicholson, è un uomo che passa da un penitenziario ad un manicomio, giacché si ha il sospetto che simuli i propri disagi psichici al solo fine di evitare il lavoro. Come si accennava poc'anzi, sarà proprio lui il simbolo della schizofrenia del film intero, poiché impersonerà in alcuni casi il lume della ragione nei confronti dei propri compagni, invece realmente colpiti da patologie, e talvolta pur venendo considerato sano dai medici si esibirà in comportamenti assolutamente folli. Fino alla fine del film non sono stato in grado di stabilire con chiarezza quali fossero le reali condizioni mentali del protagonista, e confesso di non esserne certo nemmeno ora.

Come McMurphy, anche il personale responsabile del manicomio ha continuato a mutare faccia, ma di esso mi sono fatto un'idea ben più chiara alla fine del film rispetto al protagonista. In alcuni momenti l'umanità delle persone coinvolte in tale mestiere risulta piuttosto evidente e apprezzabile, in altri svanisce totalmente. In taluni casi pare ingiustificato il comportamento severo e intransigente, in altri necessario. Di certo però il film si occupa di evidenziare alcuni momenti in cui appare palese il fallimento della scienza, la perversione della medicina, il rifiuto del cambiamento (in una scena in particolare si nota come le possibilità di cambiamento offerte ai pazienti siano solo formali) e l'inutilità di determinati trattamenti, andando infine a dipingere un'immagine non certo positiva della struttura psichiatrica in questione. Culmine di tale processo è senz'altro il finale, in cui il protagonista viene lobotomizzato col leggerezza facendolo definitivamente cadere dal filo su cui camminava e che divideva ragione e follia, in favore di quest'ultima ovviamente. Ottimo lavoro quindi, psichiatri!

Ciò che colpisce di questo film, oltre al già fin troppo citato costante dualismo di ogni sua componente, è sicuramente la recitazione: ottima! La recitazione è una di quelle cose che più è buona e meno si nota a livello di presenza. Intendo dire che più un attore è bravo, meno si noterà che sta recitando. E in questo film non mi vengono in mente attori che non sembrassero veramente folli, o medici, o qualunque altra cosa impersonassero. Il ché è davvero da lodare, considerata anche la difficoltà che può senz'altro rappresentare entrare nei panni di una persona afflitta da malattie psichiche anche pesanti.

Su tutti spicca la figura di Jack Nicholson, che con il solo piegamento di qualche muscolo facciale riesce a mandare in tilt il cervello di una persona quieta fino ad un'attimo prima: clamoroso, e perfetto per il ruolo del suo personaggio (non a caso fu questo il film che lo lanciò e gli garantì anche un meritatissimo Oscar). Notevole anche il personaggio del "Grande Capo", su cui non dico nulla pur avendo ormai svelato persino parte del finale ma che mi ha veramente colpito, sia tecnicamente che personalmente. Sono molte anche le scene deliranti, in cui i pazienti si urlano addosso, che fanno stare male, che sono veramente realistiche (ho avuto modo di frequentare ambienti simili e mi sembrava di rivivere certe esperienze) e logoranti. Si vorrebbe entrare nel film per fare qualcosa, per bloccare i loro litigi o farli ragionare, ma non si può, e ci si sente inutili e un po' malsani anche noi. Due righe vanno dedicate anche alla colonna sonora di Nitzsche, quasi omonimo di un ben più noto personaggio del secolo precedente a questo film, che per la verità è poco presente ma abbastanza ben realizzata, per quanto mi abbia lasciato relativamente poco, anche forse per la poca presenza appunto.

Il film ci porta nella mente dei poveri pazienti, desiderosi del brivido della libertà, ma timorosi per le loro condizioni e dalle ambizioni costantemente ridimensionate dal personale del manicomio. Ma l'arrivo di McMurphy, dall'inizio fino al drammaticissimo finale, cambia le carte in tavola (la scelta di questa espressione non è casuale) e cambierà anche la storia del cinema in una certa misura, consegnando al mondo quello che è sicuramente un capolavoro del cinema di tematica psico-patologica e che pone dei canoni molto alti dal punto di vista recitativo e narrativo.

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