Questa è una pagina più o meno emotiva. Se non avete voglia di leggervi fregnacce inutili saltate il punto uno, se sapete gia chi sono i Ministry saltate il punto 2, se non v’interessa la recensione… pazienza.
Parte 1: Il ricordo
Vi fu un tempo in cui i Ministry avevano goduto per un certo periodo della stima di noi metallari quindicenni.
“Cioè i Ministry, non quelli italiani, quelli americani colla ipsilon, sono un gruppo che spacca i culi, fanno metal coll’elettronica ma no, non è elettronica da truzzi, cioè spaccano, usano le chitarre potenti coll’elettronica dietro e sono stra potenti! Non sono come Marilyn Manson che è un poser e va su Emmtivvì, sono diciamo come i Rammstein ma più potenti e non cantano in tedesco che non si capisce niente, ma in inglese che non si capisce niente comunque, ma si sa che i loro testi parlano male di Bush, sapevano che Bush era uno sfigato già negli anni ’90, fanno testi seri loro e spaccano!”
I Ministry furono presto dimenticati, proprio all’inizio di quell’età (i sedici anni e mezzo) che pone fine alle velleità pseudoadolescenziali di ridurre se stessi ad uno stereotipo. E così crescendo si scoprono nuovi generi: si parte con una ciccata di prog, poi s’inizia a sniffare funk o blues e alla fine prova a spararsi in endovena tutti i generi possibili, non più alla ricerca di uno d’elezione bensì così per sfizio, per allargare i propri orizzonti. Tra questi generi arriva anche l’industrial e con esso tornano a farsi notare i nostri amati Ministry.
Parte 2: La storia
Quello che da mocciosi noi poveri idioti non potevamo immaginare è che i Ministry, quasi trentennale creatura del noto eroinomane Al Jourgensen, avevano iniziato a suonare nel 1981 pubblicando due anni dopo With Sympathy, un album di modesta qualità che proponeva quel synthpop per noi plasticoso allora tanto di moda. Il processo che li avrebbe condotti a diventare un gruppo industrial metal non particolarmente eclatante è composto invece dalla serie di dischi pubblicati sul finire degli anni ottanta d’importanza decisiva per lo sviluppo dell’industrial rock e la cui progressivamente crescente pesantezza sonora condusse alla nascita dello stesso industrial metal. Un periodo di grande fertilità terminato nel 1992 con il buonissimo Psalm 69, ormai approdato quasi totalmente alle sonorità metal, passando per gli ottimi The Mind is a Terribile Thing to Taste (1989) e The Land of Rape and Honey (1988), distillati di alienazione tecnologica in cui melodie abrasive e raggelanti campionamenti si univano in una miscela esplosiva di ira e protesta. Il capostipite di questo periodo fu l’immediato successore di With Sympathy nonché uno degli album meno noti dei Ministry, Twitch, del 1986.
Parte 3: La recensione
Per nulla soddisfatto del suo album di debutto, Al Jourgensen decise che il pop non era esattamente la sua strada ed iniziò ad intraprendere il succitato processo d’indurimento tematico e sonoro. Nel 1989 i Nine Inch Nails avrebbero iniziato a rendere l’industrial appetibile per un pubblico più vasto, qualcosa di simile fecero (al contrario) i Ministry tre anni prima con la pubblicazione di Twitch. Il distaccamento dal pop non è ancora totale, ma di pop non si tratta già più. Le percussioni iniziano a diventare echi ossessivi che urtano un muro di sintetizzatori oscuri. Estremamente interessante il cantato: non sentiamo per nulla quel urlo sguaiato carico d’ira che conosceremo già dagli album immediatamente successivi, ma una voce pulita, ora roca ora no, che canta con fare beffardo e allo stesso tempo serio. Una volutamente grottesca parodia del pop, questo è "Twitch". Un finto pop dai suoni cupi e dalle tematiche oscure adornate da una voce canzonatoria ma per nulla allegra. Sembra infatti una finta allegria quella di "Just Like You" e "Over the Shoulder", forse i due pezzi più orecchiabili dell’album. "The Angel" sarebbe potuto essere il classico pop lento da rimorchio, ma il risultato finale è qualcosa di raggelante e decisamente triste. Attraverso le cupe "We Believe" e "Isle of Man" si giunge alle finali "Crash and Burn" e "Twitch (version II") con cui si approda alle mostruose sonorità caotiche che verranno esplorate in futuro. Caso a parte l'interessante "All Day (remix 3)", poi eliminata nella ristampa del 2003 "Twitched", in cui le vecchie sonorità da pop danzereccio e quelle nuove e oscure convivono a metà.
Un album che vale la pena ascoltare insomma, non un capolavoro ma un disco di transizione che risplende di luce propria nella discografia di uno dei gruppi che hanno fatto la storia dell’industrial.
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