Ma cosa la scrivo a fare questa recensione, se tanto l’Apocalisse è vicina?

Eppure sento di doverlo fare. Un po’ come l’anziano veterano eroe di guerra, che all'ennesima battaglia sa che tutto è perduto e che sta per morire cedendo la vittoria ai nemici, ma comunque non si arrende e continua a lottare fino alla fine.

Ecco, in termini debaseriani, direi che è questa la metafora adatta per un recensore che ormai è saturo fino al collo di dischi post-metal, post-core, post-tutto e, senza sapere né come né perché, riesce ancora a stupirsi di fronte ai nuovi dischi e a trovare la forza di parlarne scegliendo le parole giuste (o che a lui sembrano tali).

Ma sto divagando e lo spazio già si sta allargando più del dovuto. Non dovrei divagare, lo so, ma è colpa dei Minsk che mi hanno mandato in confusione. Volevo scrivere una recensione dalle dimensioni il più possibile “normali”, evitando la solita logorrea che oramai mi contraddistingue, ma tanto lo so già che scriverò un mattone anche stavolta, inutile che mi prenda in giro da solo. Quindi scriviamo questa bella recensione e cerchiamo di non farci prendere troppo la mano.


Iniziamo con qualche aggettivo di base, giusto per rendere l’idea: “The Crash And The Draw” è asfissiante quanto una gara di peti in occasione della Sagra della pasta e fagioli, soffocante quanto un tour di snorkeling senza boccaglio in una pozza di petrolio, gigantesco quanto la porzione di lasagna che la nonna vi mette nel piatto a Natale quando non la vedete da più di un anno, monolitico come l’insieme di tutti i massi caduti sulla testa di Willy il Coyote dal 1949 ai giorni nostri.

Ma per quanto questi aggettivi possano sembrare strambi o altisonanti, la verità è che non c’è modo di descrivere efficacemente un disco del genere. L’unica cosa che si dovrebbe fare in questi casi è armarsi di pazienza e affrontare la Bestia, ascoltare per bene l’intero album, canzone dopo canzone, per almeno 4 o 5 volte di fila, fino a quando gli ostacoli diventeranno sempre più friabili e la fatica iniziale si trasformerà in estasi travolgente.

Perché i Minsk, qui dentro, costruiscono un vero e proprio “mondo” di note apocalittiche, fatto di chitarre mostruose e dirompenti, di melodie ancestrali che si amalgamano alla perfezione con l’annichilimento sonico, in un insieme fluido e uniforme che, per quanto ostico, alla fine non può far altro che ammaliare e conquistare chiunque sia abbastanza coraggioso da affrontarlo.


Lo spessore di questo disco è qualcosa di formidabile. Avete presente i 3 precedenti album dei Minsk? Ecco, prendete l’oscurità avvolgente di “Out Of A Center...”, gli sprazzi di puro genio in “The Ritual Fires of Abandonement” e le riflessioni lisergiche di “With Echoes In The Movement Of Stone”, amalgamate il tutto e forse non riuscirete comunque a raggiungere la profondità del quarto album dei nostri.

Perché in fondo, “The Crash and the Draw” è un disco su cui si potrebbe scrivere un saggio di 100 pagine, ma per descriverlo basterebbero anche 5 parole:

IL MIGLIOR ALBUM DEI MINSK.

Se andiamo ad analizzare le suddette 5 parole, notiamo quindi due elementi fondamentali che insieme danno un senso all'intero costrutto: “il miglior album” afferma che ogni album creato prima dalla band in questione sia in qualche modo “inferiore” a quello che si sta andando a recensire, motivo per cui la qualità dovrà necessariamente essere elevata, mentre “dei Minsk” introduce il concetto di base, ovvero la presenza di una delle più grandi band post-metal attualmente in circolazione, già autrice di 3 album stratosferici, nonché l’unica che possa effettivamente fregiarsi dell’ambito titolo di “i veri eredi dei Neurosis”.

Che poi, diciamoci la verità, per quanto io abbia trovato l’ultima fatica dei Neurosis (“Honor Found In Decay”, 2012, NdR) un disco di pregevolissima fattura e un Signor Album degno di prendere il suo posto nella discografia del combo di Oakland, è ormai chiaro a tutti che le idee iniziano un po’ a mancare e che Scott Kelly & Company si sentano ormai in diritto di produrre alcuni brani più di mestiere che di ispirazione.

Ma è normale che sia così. Per quanto i Neurosis siano dei maestri, si tratta pur sempre di persone come tutti noi e non si può pretendere che dei musicisti appartenenti alla razza umana, dopo ben 10 album in studio, continuino a sfornare capolavori e idee geniali per tutta la vita.

Questa considerazione non tocca però i Minsk, che sono “solo” al loro quarto album, e che possono quindi ritenersi abbastanza maturi ma allo stesso tempo ancora freschi: metteteci pure il fatto che la line-up si è rinnovata e che in veste di produttore troviamo Sanford Parker (Buried At Sea, Corrections House) ed è facile immaginare come quello dato alle stampe possa finalmente essere il lavoro della consacrazione. E in effetti è proprio così: come in ogni selezione naturale che si rispetti, mentre la band di Scott Kelly “trova l’onore nella decadenza”, quella di Chris Bennett è più pimpante e creativa di quanto lo sia mai stata prima.

Non stupisce, quindi, che spetti a loro prendere in mano lo scettro e continuare a mettere il cuore là dove Scott inizia a metterci un po’ troppo la testa.


Già dall'iniziale “To The Initiate” ce ne rendiamo conto. Un’atmosfera inquieta come poche introduce uno schiaffo di chitarroni distorti e di arpeggi avvolgenti, da cui emerge un coro sciamanico mai così convinto e dilatato. Si respira aria nuova, un’aria di freschezza e di rinnovamento, e l’ispirazione dei nostri diventa chiara quando fanno nuovamente la loro comparsa le chitarre, sostenute da un basso pulsante che schiaccia tutto come un carro armato. Poi un’accelerazione feroce, una voce possente e dei riff che diventano sempre più abrasivi e convincenti man mano che il pezzo va avanti. E questa pesantezza riesce comunque a conservare quell'attenzione per gli arpeggi atmosferici che tanto hanno fatto la fortuna degli album precedenti, con una ripresa della voce melodica a dir poco azzeccata.

La scia disturbante degli amplificatori ci annuncia che il brano è terminato. Siamo appena all'inizio e dopo solo un brano già ci sentiamo appagati e soddisfatti. Sono passati 12 minuti, eppure sembrata passata un’eternità (di piacere).

Il disco dura 76 minuti per 11 brani, quindi fate un po’ vobis.

Con “Within And Without” ci rendiamo finalmente conto di quanto l’asso nella manica dei nostri sia proprio quello di riuscire a scrivere canzoni schiacciasassi che mantengono, pur nella loro complessità, una fluidità e scorrevolezza di fondo che impedisce di fermare le orecchie. Più di una volta ho trovato difficoltà ad affrontare certi brani, indubbiamente ostici nei primi ascolti, eppure il piacere che si prova in questo flusso di chitarre è tale che si vorrebbe non finisse mai. E così, tra avvolgenti atmosfere e riff che pesano qualche migliaio di tonnellate a nota, anche il secondo brano scorre come una birra fresca in una calda serata estiva.

Ma il vero cuore del disco resta “Onward Procession”, una suite di oltre 20 minuti formata da 4 brani che riassumo alla perfezione il senso dell’album: emozioni contrastanti, sudore che gronda a terra, litanie lisergiche e atmosfere cupe, distorsioni solenni e distruzione dei sensi. Ma soprattutto dolore, quel dolore viscerale che era il pane quotidiano dei Neurosis ai tempi di “Through Silver In Blood” e che ora sembra diventato una merce così rara nel panorama musicale odierno.

Conjunction” è uno splendido brano post-rock, dove i Minsk costruiscono un tappeto melodico che ci consente di riprendere fiato. Una piccola pausa per i nostri sensi martoriati.

The Way Is Through” sembra essere la naturale prosecuzione del brano precedente, sfoggiando una sensibilità melodica che mai avremmo pensato potesse appartenere al DNA di Chris e soci. Tuttavia i nostri non si smentiscono mai e anche stavolta vediamo ripartire nuovi riff articolati e tentacolari, che sembrano freschi come quelli che si scagliavano sulle nostre teste nel primo brano. Non so chi gli dia questa forza e questa ispirazione: sembra che il post-metal, dopo, questo disco, non abbia più niente da insegnare a nessuno.

Altra pausa con “To You There Is No End”, breve pezzo tribale che introduce i riff ancestrali di “To The Garish Remembrance Of Failure”, costruiti con un’attenzione maniacale ai dettagli e alla potenza melodica delle singole note. Questo brano è quello che più di ogni altro sembra legato ai vecchi Minsk, eppure anche qui notiamo una maturità decisamente maggiore nella costruzione dei riff. Un saliscendi continuo risucchia l’ascoltatore in architetture assassine studiate nei minimi particolari, e sembra di essere stati scaraventati via nel cosmo e di ritrovarsi mangiucchiati da un qualche buco nero.

Ormai siamo esausti. Questo oceano nero ci ha schiacciato e non siamo ancora sicuri di esserne usciti indenni. Eppure non è ancora finita qui, perché manca ancora un ultimo brano di ben 10 minuti, e a parere di chi scrive è proprio questo il brano migliore del lotto.

When The Walls Fell” non è semplicemente la degna conclusione di un disco epocale: è il brano che dà vita a un nuovo corso nella carriera dei Minsk, aprendo la strada sia alla sperimentazione ardita che all'accessibilità di strutture più fluide e ben amalgamate. Immaginate cosa possa voler dire costruire un disco complesso, immenso e possente, riuscendo tuttavia a mantenerlo accessibile e a non far mai sfociare la noia al posto della goduria. Ecco che cosa riescono a fare i Minsk, e questo brano lo evidenzia alla perfezione. Emozionante, dolce come il miglior post-rock (si avvertono quasi dei piccoli richiami ai Baroness), fino a un’esplosione di riff che sembra la naturale prosecuzione della melodia intessuta fino a quel momento. Ma la semplice melodia non si ferma qui, no, cresce ancora, fino a diventare epica e a nutrirsi delle emozioni dell’ascoltatore, in una struttura che continua a cambiare e che tocca persino lo stoner rock, prima di perdersi in un oceano di chitarre che seppellisce lentamente il disco e sembra sussurrargli “riposa in pace, adesso”.


Chiudo questa recensione con una considerazione finale, e chiedo a chiunque voglia approcciarsi a questo disco di tenerla bene a mente.

“The Crash And The Draw” non va semplicemente ascoltato: va capito, sviscerato, centellinato e assaporato fino all'ultima goccia di sangue, dolore e passione.

Perché è un capolavoro e come tale merita di essere affrontato con il dovuto rispetto.


Buona Apocalisse a tutti.

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