Una volta in Svizzera c'erano i Coroner e i Celtic Frost. Adesso c'è anche Mirrorthrone, la one-man band di Vladimir Cochet, un capellone oscuro tanto disperato quanto geniale. Questo ragazzone dal dolore sempiterno aveva già mostrato incoraggianti barlumi di talento nei due lavori precedenti a "Gangrene" (tralasciando quelli targati "Unholy Matrimony", altro progetto dello svizzero), ossia "Of Wind And Weeping" e "Carriers Of Dust", in cui però trasparivano una perniciosa ampollosità e una deplorevole inclinazione verso la ridondanza: insomma, per farla breve, troppa scagazzoneria. In "Gangrene" (2008), tuttavia, questi difetti cominciano pian piano a venir meno, permettendoci così di gustarci il punto più alto toccato finora dal caro Vladimir.

Sul disco, che dire? Intanto, naturalmente, non è musica per tutti. In teoria è Metal, in pratica è molto di più. Non è roba, questa, per quei metallari dal vocabolario monosillabico che compongono fioretti col sangue e insultano le signore in sala d'aspetto. No, questa è musica cerebrale e densa, come il barattolo di miele che avete portato in classe urlando che erano le urine del professore, destinata a metallari gentili e savi, di quelli che vanno col corpse painting a sorseggiare il the assieme a qualche antica nobildonna bigotta. Insomma, già dall'intro dominata dal pianoforte di "Dismay", ho esplorato la profonda mestizia del cuore di Vladimir e l'ho fatta mia. Quando, pochi secondi dopo, lo svizzero ha iniziato a urlare in pieno stile Black come se avesse trovato chiuso il bar, ho avvertito una straziante fitta al petto, e non ho più potuto trattenere le lagrime. Sono un frignone, lo so. Ma poco conta: "Gangrene" non è stato ideato per le bimbeminchia che trotterellano al sole ascoltandosi il 50 cent o la Kylie Mignotte di turno: è un lavoro che va ascoltato al cospetto di una cattedrale color bistro, quando la luna si specchia nel lago come Narciso e l'unico altro rumore è quello dei sistri d'argento delle cavallette.

Tracce titaniche che si susseguono senza sosta, da godersi imbronciati e appartati in un cantuccio polveroso, in grado di rovinare qualunque giornata gaudente, come la notizia che la tua ragazza si è scoperta lesbica, e costantemente divise tra orchestrale ed estremo. Come detto prima, però, le esagerazioni e gli eccessi degli scorsi lavori sono storia antica: ogni momento, ogni singola nota è strettamente funzionale all'architettura dell'intero brano, qualunque esso sia.

Un lavoro d'avanguardia piacevole e a tratti geniale, da gustarsi lisciandosi la barba lunga con aria compiaciuta e sofferente, provando un odio insaziabile verso l'umanità. Peccato che il punto debole sia proprio la traccia finale, "So Frail", ma alla fin fine poco importa: cio che è davvero importante è il miglioramento di quest'anima travagliata, alla quale auguro tante buone cose e un prossimo lavoro di qualità ancora superiore. Nel frattempo, godiamoci questa tragedia sinfonica in cui è dolce naufragare.

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