“Il secondo album è il più difficile nella carriera di un artista” cantava Caparezza, e almeno questa volta si tratta di un paragone azzeccato.
"Mirrors" infatti è il secondo album della formazione americana dopo l'esordio col botto di "Of Malice and The Magnum Heart" ed è in assoluto il disco che ha causato più grane alla band: oltre alla già grossa responsabilità di proporre un album che non perda il confronto con l'eccezionale debutto, il combo americano si ritrova una mandria impazzita di "die hard fan" che non apprezzano la scelta del nuovo cantante (fuori Jesse Zarkasa e dentro il semisconosciuto Karl Schubach) ed un nuovo produttore non all'altezza del suo illustre predecessore (rivelatosi un mezzo fallimento su stessa ammissione della band), decisamente un bel paio di gatte da pelare anche per un gruppo come i Misery Signals. Ed è forse l'assenza di Devin Townsend dietro la console a causare il danno più evidente: la nuova release suona assai sconnessa, le chitarre perdono in potenza e la batteria in incisività, e se la voce ed il basso rimangono su standard comunque buoni, la qualità generale del missaggio è decisamente scadente, sopratutto se confrontata al superbo lavoro fatto su "Of Malice...", album da un budget decisamente inferiore.

Trattasi quindi di un passo falso?

Assolutamente no: "Mirrors", pur non forte dei mastodontici suoni a cui ci ha abituato il frontman degli Strapping Young Lad (Darkest Hour, Bleeding Through, Lamb Of God...) rappresenta senza ombra di dubbio l'album più significativo della formazione, la loro svolta definitiva verso la maturità. Canzoni quali "Something was always missing but it was never you", "Migrate", "Sword Of Eyes", "An Offering To The Insatiable Sons Of God (Butcher)" sono un perfetto collegamento tra il recente passato ("Worlds and Dreams") ed il presente ("Homecoming", "Reset", "Coma"), aggiungendo nuovi spunti e idee ad un suono già di per se fuori dagli schemi, mentre le sfuriate di "Face Yourself", "Post Collapse", l'epica "Mirrors" e "Reverence Lost" mostrano un netto passo in avanti per quanto riguarda gli arrangiamenti e i chorus.
Ma è con la melodia che si raggiunge l'apice del disco: il trio "Anchor", "One Day I'll Stay Home" e l'inarrivabile "The Failsafe" sono senza esagerazioni le migliori canzoni finora composte dalla band, in cui gli spunti progressive, l'attitudine hardcore e le influenze "metalliche" arrivano ad una perfetta coesione.
Melodia, potenza, ispirazione: "Mirrors" è tutto questo e molto di più, è un album eterogeneo ma non noioso, potente ma non cacofonico, ben suonato ma non "kitsch", che sprigiona passione e spontaneità fin dai bellissimi testi, che entreranno in testa al primo ascolto. "This is what mend the broken, the promise of something greater", "and I'm chained to everything I tried to leave behind", "One day I'll stay home...", "How much is too much", di momenti memorabili se ne contano a dozzine, in un tripudio di emozioni che scorrono senza freni.

"THERE IS A CHOICE TO MAKE!", così si conclude il disco nell'urlo catartico di "Mirrors", così concludo anch'io:
fate la vostra scelta, che è anche la mia, andate a fare vostro questo disco.

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