Se c'è un collettivo, tra le prime band hardcore, che si è distinto in maniera più che evidente per l'originalità della proposta rilasciata, questo è il collettivo dei bostoniani Mission Of Burma (Roger Miller, Clint Conley e Peter Prescott), i quali si contendono coi coevi Flipper da San Francisco la palma di gruppo punk dall'impronta più sperimentale.

L'anno di grazia per il punk-rock americano della seconda ondata è il 1982: in quel periodo escono autentici capolavori del genere, quali "Walk Among Us" dei Misfits, "Record" dei Fear, "Death Of Innocence" dei Legal Weapon, "Miami" dei Gun Club, "If I Die I Die" dei Virgin Prunes, e, per l'appunto, "Generic" dei Flipper e "Vs" dei Mission Of Burma. I primi tre sono eccezionali prove di puro hardcore bruciante alla Germs; dischi dal suono al tempo stesso semplice, rozzo e brutale. Il quarto disco e il quinto citato si riallacciano, rispettivamente, alla tradizione del roots-rock e al dark gotico, e col punk, in verità, hanno a che fare solo marginalmente.

Ma sono gli ultimi due album citati a distinguersi per un sound per lo più estraneo agli schemi e alla furia cieca dell'hardcore, pur restando nei suoi contorni specifici. "Vs", in particolare, è l'album che tra i due preferisco. La musica dei Burma a tratti è rozza, sì, per carità; a tratti è brutale e frenetica, verissimo; a tratti è agressiva, marcia, fetida, sghemba, come nella migliore tradizione, tutto giusto, tutto vero. Però, signori, la musica dei Burma non è solo questo: è anche ricerca, contaminazione, sperimentazione, in una parola, avanguardia. Già, perchè essa rivela coraggiosamente la voglia di ricercare qualcosa "in più" del semplice massacro chitarristico e delle sgradevoli urla lancinanti e animalesche : i nostri usano, infatti, l'elettronica, la manipolazione dei nastri (il buon vecchio Miler era un genio in quest'arte), e le loro composizioni sono molto vicine ad un power-pop elastico e quasi elegante. Senza contare la melodia frequente dei loro brani e l'uso di un canto tutt'altro che sgradevole.

L'album inizia, è ben vero, con "Secrets" che è una consueta cavalcata frenetica di chitarre propria del dogma punkettaro, ma subito ci si accorge che qualcosa di diverso c'è: il coro a tre è quantomeno innovativo. Ma questo è solo l'inizio: "Train" presenta un'armonia articolata di fondo che fa risultare difficile il parlare di "punk". Così come risulta ancora più difficile parlarne per "Trem Two", che avvicina il trio alla psichedelia e al raga, mentre le voci di Miller e di Conley sono insolitamente rilassate, calme, senza alcuna brutalità. L'atmosfera è, così, serafica e tutto sembra confezionato ad arte per spegnere qualsiasi tipo di emozione. L'effetto che ne deriva è altamente straniante: i nostri sembrano tre tizi annoiati che osservano lo scorrere incessante del tempo perdendosi nei loro pensieri.

Le cose cambiano con "New Nails", che è comunque un esercizio molto colto. Pervaso da un sinistro tremolio, questo brano presenta una repentina evoluzione, ricco di voci manipolate elettronicamente e di campionamenti distorti. "Dead Pool" torna nuovamente alla rilassatezza; la melodia sembra quasi afflosciarsi lentamente come una foglia sul terreno, e contemporaneamente il tema principale è connotato da una malinconia impercettibile, da un non so che di nostalgico che riscopre il rock californiano di David Crosby. Tutto questo per dire che, già dai primi pezzi, l'album appare come una scintillante miniera di citazioni e di esperimenti coraggiosi. Dopo il caos in crescendo di "Learn How", "Mica" riprende il discorso dell'orecchiabilità, con riff semplici e caotici al tempo stesso. La prova vocale di Miller persevera nel voler rimanere serenamente distaccata, trascinata da un entusiasmo quasi infantilistico. Dove sono finiti i cori di ribellione e gli slogan anarchici così tipici del primo hardcore? Qui l'unico elemento rimasto sembra essere l'ansia esistenziale, anche se un'ansia del tutto diversa a quella di un Johnny Rotten o di un Derby Crash.

"Weather Box" è uno dei tanti tesori della raccolta: la struttura sconnessa e decostruita ricorda le esibizioni più strampalate dei Devo. E' una marcia per androidi contaminata da un certo gusto jazzistico. (Il jazz è uno degli elementi di fondo principali della loro arte). "No Einstein" è caratterizzata da una certa solennità, accentuata dal canto di Miller, che seppur straniante e miagolante, punta alla magniloquenza. In coda contrappunti di chitarra e basso sfumano il tutto e gli danno un connotato di smarrimento emotivo. "Fun World" è la canzone che più ricorda i Minutemen, e il loro hardcore contaminato dal funk-jazz. A suo modo tuttavia, è una delle prove più "punk" dell'intero lotto.

Sembra quasi uno scherzo "That's How I Excaped My Certain Fate": la parte iniziale è decisa e vigorosa dal punto di vista strumentale, col basso che gira manificamente, ma poi, nel ritornello, a chi non vengono in mente le sigle dei cartoni animati giapponesi? (!) Si prosegue con "Forget", uno dei pezzi più belli, con un refrain decisamente orecchiabile e leggermente "romantico". Sono questi gli episodi che, in definitiva, ci fanno parlare di "svolta" rispetto al panorama underground di inizio decade. E la lunga coda finale di "Progress" è degna chiusura di un album epocale e senza dubbio di "rottura", un album che non ha goduto di molta fortuna in termini commerciali, ma giustissimo così!

Le opere d'arte, si sa, dalla massa non sono mai adeguatamente comprese.

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