“Segui il coniglio bianco...”

Chissà se, mentre scriveva Alice nel Paese delle Meraviglie o Attraverso lo Specchio, Charles Lutwidge Dodgson (alias Lewis Carroll) avrebbe mai immaginato l'influenza futura e trasversale di queste sue opere. L'aura immaginifica e caleidoscopica che le pervade, le svariate chiavi di lettura e la simbologia nascosta, ne han fatto un rompicapo per molti, influenzando “artisti” di estrazione e ambito a volte opposti. Dalla pittura, all'arte figurativa, fino al nostro alveo discorsivo, la musica, l'immaginario gioioso, inquietante e nonsense scaturito dalla penna di Carroll è ancora sorgente di visioni ultramondane.

Anche se la prima citazione sfacciata di Alice può essere trovata nella “White Rabbit” di Jeffersoniana memoria, è nella perfida Albione che i semi dell'immaginario Carrolliano attecchiscono maggiormente. Negli anni della scoperta psichedelica, Londra e l'Inghilterra musicale tutta, altro non sono che una trasfigurazione materiale del mondo di Alice. Le strade pullulano di personaggi che poco hanno da invidiare alla Regina di Cuori, o al Cappellaio Matto: Arnold Layne, Lewis Tollani, Mr. Kite, Timothy Chase, Baron Saturday, Mr. Pinnodmy a chiisà quanti altri, veri o fittizi che fossero. Forse solo uno dei primattori di quell'epoca riuscì a far suoi i molti aspetti della poetica Carrolliana, pagandone un prezzo troppo alto. Ovvio che mi riferisco al primo Barret, e ai primi Floyd, alfieri di quella tremula e flebile visione, durata l'arco di un anno, in cui tale immaginario veniva fuso con voli spaziali, inquietudini urbane, viaggi mentali cortocircuitati fra presente, passato e futuro.

I MMOSS, seppur bostoniani, riescono in un piccolo miracolo musicale: ricordare e far rivivere, ma senza rianimare e riesumare, il buon Syd e tutta quell'atmosfera 66/67 londinese. Aggiungendo pure un pizzico di autoctono folk di protesta e qualche visione a occhi aperti, figlia di consimili personaggi come i Grateful Dead. Le solite cose direte voi. Un po' sì e un po' no, dico io

Di certo non troverete la pietra filosofale della musica del futuro nei solchi di questo “I”, ma solo un pugno di canzoni ora più pop ora più psichedeliche, praticamente perfette. Con l'aggravante di un flauto messo lì nel mucchio. Sì, lo so molti già avranno smesso di leggere. Tranquilli, niente effetto Ian Anderson, niente pifferate di 6 ore su una gamba; solo semplice accompagnamento, senza neanche sfociare in roba folk da troubadour medievali. Solo per questo chiunque ha a cuore quella musica dovrebbe adorarli da subito, e punto. Ciliegina sulla torta la durata mediamente breve, sui 2 min e poco più, della maggior parte dei brani.

Qualche titolo a caso, giusto per farvi capire: “Grow Down” gira circolare e ipnotica, “Woolgathering” si anima della presenza di Grace Slick, “Molly Molasses” fra Twink, John Lennon e i Coral, “And Do I Set My Bow In The Clouds” è il quarto pianeta dal Sole, prima della fine; “Maryanne Rising” è un piccolo nugget hit alla Kinks, “Make It Well” lo potrebbe aver scritto Yanez de Gomera, mentre veleggia su Mompracem col phaser attaccato. Mi fermo qui e siamo appena oltre metà del disco. Ho detto tutto.

May The Circle Remain Unbroken.

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