Voglio fare come Kerouac e il suo "On the Road", iniziare a scrivere come se fosse un flusso continuo, senza schemi prestabiliti. Non so se ci riuscirò, tra l'altro pur adorando Jack, il suo stile di scrittura non mi fa manco impazzire, ma fa nulla, stavolta va così. Partiamo da venerdì notte, fuori dall'Echoplex dove la mia maglietta dei Modern Life Is War dal color grigio è diventata di un nero carbone e sembrava fosse uscita direttamente da un monsone indiano. È appena terminato uno show annichilente che ha visto protagonisti in una personalissima loudness war i Loma Prieta e gli Head Wound City. Quest'ultimi poi, meritano una menzione anche se lo scritto parlerà di tuttaltro. Head Wound City, dicevamo, un gruppo che vederlo dal vivo è una rarità, ma un side project in cui vi invito a legger i nomi dei componenti per capir la portata schizofrenica del loro whatever-hardcore in cui la parola noise, noise, noise fa capolino più volte. Ero in prima fila, as usual, ne son uscito con un ronzio nelle orecchie più fastidioso di qualsiasi zanzara si possa incontrare in pianura ad agosto. Fatto sta che parlando un attimo con il mio amico post-concerto vedo uscire Val Saucedo, il batterista dei Loma. A mia sorpresa mi fissa e mi riconosce (vi rimando alla mia recensione sul live con i Pianos Become the Teeth, va), mi abbraccia, esclama con uno slangosissimo californiano "hey, whassssssup, man?", parliamo di nuovi album e degli Head Wound City. A Val poi cade l'occhio sulla mia maglietta e dice: "beh, anche domani sera sei in trincea?". Cosa si vuol rispondere se non un "of course, of course". Piccola introduzione che serve per parlarvi di un concerto che aspettavo da tanti, tanti, tanti anni, da quando alle superiori presi in mani "My Love, My Way" e il mio modo di pensare l'hardcore cambiò drasticamente. Sabato sera a Los Angeles arrivavano per festeggiare il decennale di Witness loro, i Modern Life Is War, uno di quei gruppi che metti sempre in quelle inutilissime classifiche personali fra gli artisti che ti hanno influenzato, ti hanno conquistato, ti hanno...inserite voi il gettone per trovar la parola più azzeccata. Questo sono loro per me, non era uno show come tanti altri. Era LO show.

Il Roxy Theatre ti attende lì, appena inizia l'interminabile rettilineo di Sunset Boulevard. Non è un locale enorme, nonostante abbia una fama di primo livello, terrà al massimo cinquecento persone, ad esser ottimisti, ha un palco dalla forma esagonale tranciata nettamente nel mezzo e un'altezza dello stage che definire ridicola è un eufemismo: arriverà a dir tanto al ginocchio di una normale persona adulta. Nozioni tecniche noiose? Ve lo concedo, ma utili alla causa. L'agitazione che personalmente avevo in corpo sabato era di quelle che si possono percepire a prima vista, non che io abbia fatto qualcosa per nasconderla, anzi. Arrivo al Roxy in largo anticipo, giusto in tempo di cenare lì vicino e potermi far la fila all'ingresso tranquillamente con l'immancabile braccialetto 21+. L'atmosfera è veramente quella delle grandi occasioni, mentre entro tra le altre cose noto appiccicati ovunque dei foglietti che recitano "No Stage Diving", beh, fissate lì il promemoria su questa cosa. L'elettricità che si respira cresce man mano che le lancette scorrono e viene alimentata anche dai gruppi che apriranno la serata. Dalla Bay Area arrivano i Culture Abuse, i quali salgono sul palco allucinati, in un mix non ben definito di finzione utile per la performance e stato alcolemico elevato. Durante il breve, ma intenso set infatti non si contano le volte in cui volano per terra lattine di Bud, ma questo non va ad abbassare l'impatto frastornante fatto di punk rock sgangherato, con un sound lo-fi incalzante e ritmiche senza controllo. Piombano birre sulla batteria. David, il cantante, cade a terra, rantola, si lamenta, deride, rompe l'asta del microfono buttandola in aria e i venti minuti volano in un batter di ciglia. Degradanti sì, ma in senso positivo. È proprio sul finire del loro show che noto accanto a me Jeremy Bolm, il cantante dei Touché Amoré, anche lui pronto a lasciarsi andar nel corso della serata. Se le cose si erano fatte "weird" con i Culture Abuse, sicuramente continuano ad esserlo con i Cult Leader. Il gruppo dallo Utah null'altro che è l'eredità dei Gaza e son il gruppo più pesante della serata, un mix fra sludge, grind e crust dalle tinte oscure e che, a livello d'attitudine, m'ha ricordato per certi versi gli AmenRa. Il protagonista della performance è un posseduto Anthony Lucero che dopo una manciata di minuti decide di scendere dal palco e cantare per tutto il live fra il pubblico. Si muove sinuoso, come un serpente avvelenato, mentre i Cult Leader con la pesantezza di un macigno che manco nel Purgatorio di Dante alzano il livello del gain fino a renderlo d'un abrasivo scorticante.

Non c'è nulla da dire, gli antipasti della serata sono di primissima qualità, ma la situazione si sta far ancor più incendiaria. Prima dei Modern Life Is War c'è un'autentica perla. Una band che non si capisce mai se sia attiva, sia in pausa, insomma, nel più classico mood DIY che contraddistingue la scena HC. Sul palco devono salire i Dangers, californiani doc, dal 2004 con furore. Nessuno se li aspettava, ve l'ho appena detto, quindi quando son stati annunciati non era più solo il decennale dei Modern Life Is War, ma anche l'occasione di rivedere una band che fa di ritmiche schizofreniche e riff spigolosissimi il suo marchio di fabbrica. D'altronde se il live inizia con un pezzo come "We Broke the P.A."cosa ci si vuole aspettare? Il pubblico li vuole, Al Brown lo sa. Ricordate il cartello "No Stage Diving"? Grosse risate. La ressa incomincia a spinger verso il palco, tutti cercando di scavalcare tutti, gente ne approfitta per far i primi tuffi dal palco e Al che ha uno scream espressivo come pochi altri, sposta gli amplificatori e, istericamente, inizia a lanciare il microfono ovunque. Mi strattona la maglietta (e io che l'avevo appena ricucita dico di nuovo addio alla mia maglia dei Birds In Row) e incita, incita, incita. Per lui non è uno show qualunque, sul palco infatti c'è la famiglia al completo. Con le bambine di 8,9 anni, moglie, cognato e chi ne ha più ne metta. In una delle poche pause ci dice che è compito nostro rassicurarle in quanto non hanno mai visto il loro papà così e potrebbero spaventarsi, nonostante faccia promessa di cantar loro la ninna nanna una volta tornati a casa. Risate fragorose e riprende il supplizio. I Dangers sul palco son in assetto di guerra, c'è spazio pure per nuovi pezzi, Al è una scheggia impazzita, si muove ovunque, si lancia a fare crowd surfing, piglia il microfono e si butta a cantare in mezzo al pit che s'è creato nel mezzo della sala del Roxy. È tutto così fuori controllo, così dannatamente spaccaossa. Gli applausi a fine performance sono scroscianti, ma ora, lì, nel pubblico si vede andar in zona backstage un certo Jeffrey Eaton: il grande momento è arrivato.

Farfalle nello stomaco, ecco la sensazione dominante che c'era in me. Sono proprio sotto Matt Hoffman quando le luci s'abbassano. L'entrata sul palco è di quelle umili, semplici, non c'è nessun telo, nessuna scenografia, è tutto molto grezzo e vecchia scuola. Jeffrey prende il microfono in mano e ha un monito da far prima di dar il via: "Questo palco questa sera non è mio, è anche vostro, sentitevi liberi di venir su qui con me, voi siete noi"; inutile dire che il suggerimento verrà preso alla lettera. Io non sto più nella pelle, sto già iniziando a muovermi quando Matt e John iniziano con le loro chitarre ad accennare "The Outsider". È come se non fossi più in controllo di me stesso quando volano le parole: "We are Modern Life Is War from Marshalltown, Iowa. Let's go". La fine. Adieu, mondo. Non riesco veramente a trovar le parole, non son sicuro di riuscir a metter per iscritto tutto ciò che mi passava per la mente quando con le mie povere corde vocali urlavo ogni singola parola, ogni singolo testo di Witness. In quanto sì, Witness viene fatto in modo integrale, seguendo tutto il percorso doloroso ed emozionale integralmente, senza tralasciar nulla. Si passa all'esasperazione di "John & Jimmy" alla dimensione intima e alienante di "Marshalltown", con a sorpresa una "D.E.A.D. Ramones" piazzata lì nel mezzo, liberatoria e trascinante. I miei piedi non toccano più terra e non è una metafora, semplicemente sono trascinato nel mezzo lì davanti con Eaton a centimetri, con Jeremy Bolm che mi piomba sulla schiena, con gente che sembra relazionarsi in modo così profondo con la realtà di frustrazione anonima che i Modern Life Is War raccontano. Le melodie sono dilanianti, si fanno pregne di una disillusione che Jeffrey ben incarna. Un'insicurezza che il fragile incidere di "I'm not ready" fa emergere, concedendo uno dei pochi respiri profondi del concerto. È incredibile veder la tranquillità di Tyler, John, Chris e Matt che fa da contraltare alla frenesia di chi non ha più nulla da perdere e che urla con uno degli scream più identificativi della nuova scena hardcore tutto il suo voler reagire. Più d'una volta li vedo suonare con gli occhi chiusi, soprattutto sul gran finale di "Hair Raising Accounts of Restless Days" che con i suoi 5 minuti imbriglia e convoglia tutta l'essenza dei Modern Life Is War. Witness è finito, ma non il concerto.

"First & Ellen" ripiomba da "My Love, My Way" e...nulla, è la mia canzone preferita loro, trascinato dalla folla, finisco sul palco, strattono Jeffrey per un secondo e mi butto giù, lasciandomi cadere nel pubblico. Una cosa che a posteriori mi sembra difficile credere d'aver fatto, eppure è stato così. Quelle parole, quel break melodico, quell'escalation finale, è mia.. È tutto ciò che mi ha portato ad amare i Modern Life Is War, penso sia stato questo a spingermi, a toglier tutti i freni possibili. Vengono pescate anche "Fuck the Sex Pistols" da "Midnight In America" e "Chasing My Tail" dall'ultimo "Fever Hunting". Oramai son una cascata di sudore, i lividi su caviglia, gomiti e spalle si incominciano a far sentire. Arriva una Vans dal dietro per ricordarmi che la prima fila è sempre un'esperienza..mistica? L'ultimo tuffo i Modern Life Is War lo confenzionano con "By The Sea": porca puttana. Cerco di districarmi fra le mille braccia, grido a più non posso, esausto, ma felice. Jeffrey arriva sul pubblico e ci allunga il mic, con le vene del collo che oramai stan per collassare abbozzo "I want to live to see a brand new life", ultime parole ripetute come un mantra con la chiusura che viene allungata alla sfinimento, con rullate e distorsioni che s'inaspriscono sempre più. Quello che segue? È un boato del pubblico, con sorrisi e la sensazione d'aver assistito a una performance intensa non solo dal punto di vista musicale, ma anche personale.

Volevo trovare una conclusione ad effetto per questo report, ma penso sia meglio chiuderla come i Modern Life Is War hanno iniziato il loro show, senza effetti pirotecnici. Quindi dico solo grazie a loro. Grazie.

Carico i commenti...  con calma