Lo speaker dietro il quale si cela nella prima traccia la flebile voce di IGGY POP ci conduce ai sostanziosi contenuti di “Come on die young”, terzo album (includendo quella che è in tutto e per tutto una raccolta, seppur di inediti di Ten rapid.) degli scozzesi post- rockers.
L’inquietudine che gocciola dalla copertina del disco è riscontrabile in gran parte nelle lunghe suite che caratterizzano questa nera creazione. Lungo la dozzina di tracce e l’estensione che lambisce i settanta minuti di musica, si udiranno voci da telecronaca di football (?!) assemblate a sinuose rullate di battiti incessanti e ondeggiati (colpa della new wave, forse), intrecci perfetti delle chitarre elettriche, qualche sudicia partitura per flauto traverso e i dovuti citazionismi nei fraseggi di piano (Satie lo si sente glorificato).

C’è altro. In “Cody” li si sente cantare quella soave melodia che, tuttora, in molti riconoscono come un capolavoro di slow – core (come? Ah si, pardon, Glasgowcore!). Non che abbiano torto, d’altronde.
E se credete che solo “Cody” basti per esorcizzare quelle sozze banconote nelle vostre tasche, per fortuna c’è da ricredersi quasi immediatamente. Ogni singola traccia, qui, nasconde un piccolo tesoro da custodire, dei piccoli secreti mai rivelati (presente Twin Peaks, la serie televisiva dei primi ’90 a cura di Lynch e sonorizzata magistralmente da quel genio di Badalamenti?).
Già dal titolo, “How The Dogs Stack Up” (come i cani s’impilano!?) esagita anche le anime più dure. Prima ti corrompe e poi ti stende al tappeto.
Percorsa l’oscura cerchia dei cani che s’impilano, un “Ex-cowboy”, rimpatriato in città, compie una strage di cuori nostalgici con vertiginosi crescendi strumentali che si protraggono per circa dieci inesauribili minuti.

In “Chocky” convivono soffici respiri e gli affanni della tristezza che non può altro che graffiare le giornate ad aspettare una telefonata tanto ambita. Il tutto condito con esplosioni di feedback chitarristici, un pianoforte dominante e una ritmica che col passare dei palpiti si fa più aspra. Ma non invecchia.
Non si ha il tempo di riprendersi dall’immenso viaggio offerto da due mastodontici paradisi sonori consecutivi, che arriva il terzo.

“Christmas steps”. Non finirò mai di amare questo incanto di chiaroscuri. Due nodi chitarristici inizialmente suonano come la quiete dopo la tempesta, ma non è che momentanea e più inattendibile parvenza. La tensione stiracchia e tende gli avvilimenti raccolti durante il cammino. A 3’48” il basso inizia a pulsare agitato e, in comunione d’intenti, chiama gli altri strumenti a dare origine ad un’indescrivibile apertura noise ed un’abbagliante chiusa di violino che sembra provenire da un’altra dimensione. No, non finirò mai di elogiarla. A mio parere, uno dei capolavori degli ultimi dieci anni.
Dopo l’ennesima esplosione c’è solo più il tempo di un breve epilogo strumentale per tromba e rumori che recupera il discorso da dove fu cominciato. Così, fino all’infinito.
Quando non arrivano ad essere capolavori, le altre tracce, sfiorano la perfezione. Forse anche volutamente.

“Come on die young” lo acquistai subito dopo la sua uscita, spinto da qualche sample ascoltato distrattamente.
Da allora ho iniziato a farlo ascoltare a tutta la gente che man mano conoscevo, tanto ero fiero di possederlo.
Con tutta la pubblicità che gli ho fatto…avrei potuto godere di una villetta ottocentesca in un viottolo di campagna. E invece.
Prima o poi, me ne vado da questo castigato appartamento gelato.

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